8 Marzo 2024

Un Far West vicino vicino. Intervista a Daniele Pasquini, autore di “Selvaggio Ovest”

di Sofia Sercia

Intervista a cura di Sofia Sercia.

Daniele Pasquini è il quindicesimo autore di Equi-libri Precari.

Daniele Pasquini, classe 1988, è originario della provincia fiorentina. Il suo esordio letterario risale al 2009 con Io volevo Ringo Starr per la Intermezzi Editore. Oltre alla pubblicazione di articoli e narrazioni per diverse riviste antologiche, nel 2022 ha pubblicato Un naufragio con SEM Edizioni. Con Selvaggio Ovest è entrato a far parte della famiglia NN Editore.

Sofia Sercia: Oltre a pubblicare romanzi, sei anche addetto stampa di una casa editrice, che cosa ti ha spinto a cercare lavoro nel mondo dell’editoria e a scrivere il tuo primo romanzo? Credi che ci sia un approccio diverso nello scrivere quando si è interni al settore e se ne conoscono i meccanismi? 

Daniele Pasquini: Quando ho pubblicato il mio primo libro, nel 2009, ero un ventenne inconsapevole di tutto. Al tempo semplicemente scribacchiavo su quaderni o documenti word, senza particolari velleità o idee di poetica. D’altronde tutti scrivono. Un giorno ho avuto un’idea che mi pareva sensato esplorare, ha preso la forma di storia, poi di romanzo. In tre settimane avevo finito di scrivere un romanzo. E poi, senza rendermene conto, ho incontrato un piccolo editore indipendente, Intermezzi Editore, che in quegli anni era particolarmente attivo e recettivo. Hanno pubblicato Io volevo Ringo Starr – che era un romanzo di formazione, estremamente puro, 100% apollineo – e paradossalmente è stato quello il momento in cui ho capito di non saper niente di editoria. L’ho scoperta quindi grazie a loro (Chiara Fattori, Manuele Vannucci e Attilio Scullari), che mi hanno portato in giro per festival, fiere e presentazioni, e mi hanno fatto intuire non solo alcune dinamiche di un mondo assai complesso, ma anche l’inconsapevolezza e l’ingenuità (e la totale libertà, di contro) che c’era dietro la mia idea di scrittura. Ovviamente più cose sai, più aumentano le cose che sai di non sapere. Per spiegarmi con una metafora natatoria: si dice che tutti sappiano nuotare per istinto. Ma nel momento in cui sai di non saper nuotare, è allora che annaspi e vai a fondo. Da allora sono passati 15 anni in cui ho fatto i lavori più disparati, ma tutti legati al giornalismo, alla comunicazione e alla promozione culturale. Adesso mi occupo di marketing e ufficio stampa per una casa editrice, e osservo molto da vicino le dinamiche che 15 anni fa neppure immaginavo. Ma credo che questo non influisca, se non in misura molto marginale, sui miei progetti di scrittura, che sono sempre stati e rimangono qualcosa a cui mi dedico oltre il lavoro.

Puddles, David Halbach, 1995

S.S.: Selvaggio Ovest. Un western che non è un vero western, non mantenendo la tipica ambientazione americana. Ad ogni modo, dalla lettura del libro si evince la tua grande passione per autori e registi che hanno reso grande il genere: come e quando nasce?  

D.P.: Se si eccettua qualche gioco di infanzia e un paio di numeri di Tex, il primo contatto con il western è stato proprio nel 2009, quando ho letto Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, che in un certo senso è “la fine” del western. È stato un incontro straniante, oscuro, profetico, ma l’ho elaborato solo dieci anni dopo.  Nel corso del tempo ho maturato una predilezione per la letteratura americana, passione che era iniziata casualmente in tarda adolescenza con Kerouac e la Beat Generation. In questo percorso disordinato ho incontrato altri autori, e solo negli ultimi anni, dopo essere rimasto folgorato da Lonesome Dove di Larry McMurtry, ho deciso di approfondire più seriamente. Tra il 2021 e il 2023 ho basato la mia dieta su narrazioni di frontiera, mi sono letto o visto oltre cento titoli tra film e libri. Ho scoperto cose molto belle e altre molto meno, ma mi sono anche accorto che gli ingredienti del genere sono semplici, i topoi sono sempre quelli, ma le possibilità narrative sono sterminate. E ho capito che se il western per me era un mezzo, il fine era piuttosto collegato al concetto di “frontiera”: una direzione, un punto cardinale, una ricerca.

S.S.: In nota alla fine del libro scrivi che «alcuni riferimenti sono presenti in epigrafe, alcuni sono nascosti e altAri li hai metabolizzati»; chi sono stati in particolare i tuoi maestri, coloro che hanno influenzato le atmosfere del tuo romanzo più di altri? 

D.P.: I primi tre nomi sono McMurtry, McCarthy e un altro autore, purtroppo meno noto, che è A. B. Guthrie. Ma i riferimenti in realtà sono numerosi, e dei più vari: John Steinbeck, Annie Proulx, Willa Cather, John Williams, Micheal Punke, Joe Lansdale, Philip Meyer, Kent Haruf… la lista potrebbe proseguire. Tra gli italiani, se dovessi sceglierne solo due, citerei Emilio Salgari e Luciano Bianciardi, per ragioni estremamente diverse.

The Close of Day, Bill Anton, 1996

S.S.: La Maremma Toscana, «terra di miseria e acqua putrida, e rovi e marruche, e malaria, e pastori, e contadini»; come mai hai scelto di ambientare la tua storia proprio qui? Hai un legame affettivo con questa terra o ti sei accorto più tardi che era il luogo adatto a una storia che portavi dentro e che aspettava di venire fuori?

D.P.: Sono nato e cresciuto in provincia di Firenze, ma il legame affettivo con la Maremma è forte. Per me è la terra delle estati felici, dei giochi di infanzia, dei campi scuola, del mare. Ma che quella terra lì potesse essere l’ambientazione di un romanzo l’ho capito tardi, non più di 4-5 anni fa. Dopo un viaggio negli USA occidentali ho riosservato la natura nei dintorni del grossetano con occhi diversi e ho trovato delle analogie che mi hanno ispirato le prime suggestioni. A cui poi, in rapida sequenza, se ne sono aggiunte molte altre.

S.S.: Il genere Western solitamente porta con sé valori e caratteristiche specifiche: ideali di speranza e libertà, codici di onore, storie di vendetta; il tuo libro abbraccia gran parte di questi aspetti, nonostante lo slittamento di ambientazione. Cosa credi che leghi la Maremma di fine ‘800 alla sanguinosa America del periodo della Secessione? 

D.P.: Non così a tanto, a dire il vero. A metà dell’Ottocento, per i giovani Stati Uniti, il West rappresentava la terra promessa, un luogo in cui espandersi, un mondo da civilizzare. Era il luogo della possibilità. Al netto del genocidio dei nativi – sempre che una cosa del genere possa essere trascurata – in America l’epica del Far West è stata il mito fondativo della nazione, l’incarnazione degli ideali di libertà, emancipazione e successo che definiamo “American Dream”. Negli stessi anni, nel periodo dell’unificazione italiana, la Maremma era una terra altrettanto “spopolata”, ma perché malarosa, pericolosa, piena di acquitrini. Nessuno, durante le varie dominazioni, era mai riuscito a risolvere il problema della Maremma, che restava sostanzialmente una terra ingovernabile, incoltivabile e quindi inabitabile. Semplifico molto per amor di sintesi, ma penso che le uniche vere similitudini fossero la scarsa densità di popolazione, il dominio incontrastato della natura, la presenza di mandriani a cavallo: da una parte i cowboy, dall’altra i butteri. Nonostante ciò, ho pensato che le meccaniche del western – e in particolare le atmosfere di un western crepuscolare – potessero funzionare anche in Maremma, dove potevo allestire un’epica in tono minore.

God’ Gift to the Cowboy, G. Harvey

S.S.: I cowboy americani rappresentavano tipicamente virtù eroiche nella loro lotta per la conquista del West. In qualche modo, però, tu finisci col prenderti gioco di loro. Credi che l’America abbia visto in qualche modo un “declino” dei propri valori? Se sì, cosa pensi che l’abbia causato? 

D.P.: Non ho le competenze per dare un giudizio storico, ma credo che si tratti di un mito su cui l’America ha fondato la propria identità e che è stato problematizzato molto tardi. Dietro il senso di libertà e scoperta che senz’altro animava i primi pionieri, trap-man, cacciatori ed esploratori, la conquista del West si è presto trasformata in atti di violenza, sterminio, barbarie. La storia della “civilizzazione” è una storia fatta di nefandezze, di abusi e di devastazioni. Anche qui, esagero molto: tipicamente e tradizionalmente allo stile di vita dei cowboy si associano caparbietà, orgoglio, forza dell’individuo. Sono tutti atteggiamenti che idealmente collegherei ad un machismo e a un suprematismo che possono essere considerati “valori” giusto dai trumpisti, da vecchi nostalgici e reazionari. Credo che a causare la crisi di quei valori – ammesso che siano davvero in crisi – sia sufficiente il diffondersi di un livello minimo di istruzione. Per fortuna quell’immaginario oggi è messo in discussione, raccontato con meno retorica, svelandone i chiaroscuri e le contraddizioni. Il cinema contemporaneo, anche quello hollywoodiano, continua a parlare di cowboy ma non lo fa (solo) con logiche di retroguardia. Senza uscire dal mainstream, e rimanendo tra i più celebri registi e registe dell’ultimo decennio, si possono snocciolare tutti in fila i nomi di Tarantino, Iñárritu, Ang Lee, Jane Campion, i fratelli Coen. Tutti hanno lavorato col western, tutti con diverse sensibilità. 

S.S.: Uno dei temi che vengono toccati all’interno del romanzo è la ricerca della propria identità, che però non sempre è strettamente legata alle proprie radici. I personaggi di Donato e Gilda, ad esempio, finiscono col perdere, in un modo o nell’altro, le loro famiglie d’origine per doversi reinventare e fare i conti con loro stessi.  Quanto pesa il luogo dal quale veniamo e quello che facciamo quando si tratta di venire ai patti con l’identità? 

D.P.: La nostra identità è data dal nostro corredo genetico, dall’ambiente che ci circonda, dalle storie che ci nutrono e che noi stessi raccontiamo. Selvaggio Ovest in fondo è un romanzo che parla di essere figli e figlie, di nascita e rinascita, e di come le parole che cerchiamo, perdiamo o pronunciamo abbiano un impatto enorme sulle nostre vite.

Golden Touch, Jim Wilcox

S.S.: NNE editore: una casa editrice giovane, ma che è riuscita a incontrare un grande consenso di pubblico in poco tempo. Com’è stato lavorare con loro? 

D.P.: È stato bello fin dal primo istante. Conoscevo il loro catalogo e avevo letto diversi dei loro libri, il fatto che abbiano puntato con entusiasmo e forza su questo romanzo mi ha fatto piacere. E il lavoro sul testo è stato piacevole: mi hanno fornito quattro-cinque spunti per migliorare il testo in alcune sue parti, ne abbiamo discusso, e quei suggerimenti li ho poi potuti seguire (o non seguire, in un caso) con la massima libertà. È stato un confronto sereno, fatto prima di tutto di rispetto reciproco, direi.

S.S.: Alle spalle hai già la pubblicazione di tre romanzi e una raccolta di racconti. Come si è evoluta la tua scrittura in questa tua ultima pubblicazione? Per quella che è stata la tua esperienza quali sono le differenze fra la stesura di un romanzo e quella di racconti più brevi? 

D.P.: Senza dubbio questa è la mia opera più matura. Oltre all’esperienza, credo dipenda in larga misura dal fatto che come autore mi sono fatto da parte. Ho innescato una storia e poi ho cercato di servirla al meglio delle mie possibilità. Il fatto che si tratti di un romanzo con un intreccio avventuroso e robusto ha facilitato le cose. È un percorso che avevo iniziato con il romanzo precedente, Un naufragio, che pur avendo un’ambientazione e tematiche contemporanee (una relazione di coppia), due soli personaggi e dinamiche narrative diversissime rispetto a Selvaggio Ovest, avevo già introdotto l’elemento dell’avventura. E mi ero accorto che attraverso gli strumenti propri del genere, solitamente negletti, poco “letterari” e di serie b, in realtà mi si presentavano possibilità importanti che altre forme di fiction e autofiction tendono a escludere.  

Riguardo il rapporto romanzo-racconto, dal punto di vista pratico cambiano postura, struttura, costruzione delle scene e perfino modalità di costruzione della frase, ma pur sempre si tratta – restando su metafore acquatiche – di corsi d’acqua che vanno verso il mare

S.S.: Quali sono i tuoi prossimi progetti, letterari e non? 

D.P.: Non ho progetti di scrittura aperti al momento. Concepimento e stesura di questo romanzo sono state totalizzanti. Due anni tanto entusiasmanti quanto impegnativi. L’uscita del libro è stata quindi anche una forma di liberazione, e al di là di tutto questo – presentazioni, articoli, l’incontro con i lettori: che sono cose meravigliose e che già in queste prime settimane ripagano ampiamente lo sforzo – sono semplicemente lieto che questo Selvaggio Ovest galoppi. Ho qualche vaga idea in mente, ma nessuna urgente.

© Riproduzione riservata.


titolo: Selvaggio ovest
autore: Daniele Pasquini
editore: NN Editore
anno: 2024
prezzo: € 18,00


Sofia Sercia

Nata a Milano il 14 giugno 1998. Dopo aver frequentato il liceo linguistico Alessandro Manzoni, si laurea in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università Statale di Milano. Nel 2022 ha conseguito un master in editoria presso la Villaggio Maori Edizioni. Attualmente collabora con San Paolo Edizioni alla redazione di testi per la rivista PagineAperte.

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