
Harvey Weinstein.
Per Emma Cline, solo Harvey.
Sì, stiamo parlando di quell’Harvey Weinstein, proprio lui, il fondatore della Miramax Films, la casa di produzione cinematografica che vanta registi e titoli di successo, che ha avviato la produzione di capolavori come Bastardi senza gloria, Pulp Fiction e Django Unchained di Tarantino, di Gangs of New York di Scorsese, di Big Eyes di Tim Burton, e ancora di Il lato positivo, The Artist, The Fighter e decine e decine di altri film.

Pellicole che Harvey Weinstein ha supervisionato personalmente e attentamente, pellicole che hanno quasi sempre avuto un successo internazionale di grande rilevanza.
Quell’Harvey Weinstein. Lo stesso che nel 2017 fu accusato pubblicamente da decine di attrici di molestie e di violenze sessuali, a volte anche di stupro. Decine.
In totale, si sono dichiarate vittime poco più di novanta donne.
Attrici di successo, attrici famose, attrici alle prime armi, attrici perlopiù giovani e belle, attrici dimenticate, attrici che oggi sono stelle di Hollywood. Come Cate Blanchett. Come Gwyneth Paltrow. Come Asia Argento. Come Eva Green, Angelina Jolie e Uma Thurman.

E dopo tre anni di processi, testimonianze, dichiarazioni, interviste e scandali succeduti, nel febbraio 2020 Harvey Weinstein è stato condannato per stupro di terzo grado e per atti sessuali criminali, da scontare con 23 anni di reclusione.
Leggere le dichiarazioni delle attrici, le descrizioni delle violenze è nauseante.
Nauseante quasi quanto l’Harvey Weinstein che la Cline descrive nel suo romanzo, nelle 24 ore prima del verdetto. Un uomo viscido e putrido, un uomo disgustoso in ogni suo gesto ed espressione, i cui atteggiamenti e le cui azioni non corrispondono praticamente mai ai suoi pensieri. Falso e ipocrita come solo un approfittatore e un ricattatore può esserlo. Un uomo ossessionato dal suo lavoro, dal suo successo, dalla sua persona. Borioso ed egocentrico, manipolatore, convinto di avere la vittoria in tasca a causa del suo nome. Eppure, un uomo che, pur non mantenendo la lucidità, si arrocca in un incredibile sangue freddo e dimostra un’intelligenza certamente fuori dal comune.

Tuttavia, Harvey è consapevole che sta perdendo “stoffa”, sta “perdendo terreno”, che man mano che scorrono le ore, che si avvicina l’ora del verdetto, le persone che lo circondano, gli individui che si muovono nel suo spazio gli sfuggono: non riesce più a captarli, ad afferrarli, a governarli.
Lo abbandonano.
Ed è quello il presentimento della condanna che lo attende. La ricerca del contatto umano è, infine, ciò che lo dichiara sconfitto.
Quest’uomo che ha sempre vissuto affermando il suo potere sugli altri, è ora ridotto a una larva dalla solitudine. Le persone/personaggi che ora lo circondano sono nelle pagine della Cline come manichini vuoti, ombre evanescenti che fanno appena avvertire il loro passaggio, persone con cui Harvey non riesce, non può stabilire più alcun contatto, poiché egli non ha mai saputo stabilire un contatto con gli altri che non fosse di dominazione.

Questa dimensione di ricerca è visibile proprio dall’uomo che si oppone e al tempo stesso la cui figura si fonde con Harvey Weinstein e che chiude la sua parabola narrativa: Don DeLillo.
Uno scrittore.
Uno dei maggiori scrittori americani contemporanei.
Una figura evanescente come solo la scrittura sa esserlo.

La scrittura, che si oppone e si fonde con il cinema: che si fonde, forse perché è risultato della medesima arte creativa; e che si oppone, perché non è ancora corrotta dal fango della materialità. Non del tutto.
© Riproduzione riservata.
Il nostro giudizio


Giada Di Pino
Ha lavorato presso la Leonida Edizioni, ha frequentato il Master in Editoria della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e ha svolto uno stage presso Il Saggiatore. Oggi lavora come editor freelance e come insegnante.
Potrebbe interessarti: