29 Dicembre 2023

Nel bianco. “La tristezza degli angeli” di Jón Kalman Stefánsson

di Adele Licciardi

Ecco le lacrime degli angeli, dicono gli indiani del nord del Canada quando cade la neve. Qui nevica molto e la tristezza del cielo è bella, è una coperta che ripara la terra dal gelo e illumina l’inverno interminabile, ma può essere anche fredda e impietosa.

Bianco è il colore di questo libro. Non la copertina, non la sua immagine, il titolo, la scritta. Bianco è il colore che senti quando ti immergi ne La tristezza degli angeli di Jón Kalman Stefánsson

Il secondo romanzo della Trilogia del ragazzo, edito da Iperborea, è un viaggio nel bianco delle montagne innevate, attraverso il vento che sferza con ferocia fiocchi taglienti come lame e, in questo viaggio, mi sono persa anche io. L’ho attraversato con quella lentezza di chi ha le membra intorpidite dal freddo e sa che la meta è lì, da qualche parte, ma è ancora lontana. 

Qui ritroviamo il ragazzo senza nome qualche settimana dopo il suo arrivo al villaggio in seguito alla morte in mare dell’amico, Bárður. Ospite nella pensione di due donne forti e indipendenti, Helga e Geirþrúður, e sotto i rimproveri del burbero e cieco Kolbeinn, il ragazzo viene visto per quello che è: un’anima profonda e acuta che comprende il valore della poesia e delle parole. Per questo motivo ha bisogno di un’istruzione che possa dargli un futuro diverso, ma solo dopo aver accompagnato il postino nel suo viaggio per smistare la posta. Così, un nuovo personaggio fa il suo ingresso in questo mondo fatto di carta e parole: un omone grande e grosso, Jens, che ama una donna che ha subito troppo dalla vita; Jens che sa essere buono e pacato, che sa sbagliare come ogni uomo ma, proprio per questo, vorrebbe essere migliore. Jens che ha un compito tanto semplice quanto duro: consegnare lettere. Chi, meglio di lui, conosce il peso delle parole da portare sulle spalle per quelle lande meravigliose e terribili insieme? Parole di altri, parole attese che non vogliono perdersi tra la neve.

La missione quasi epica dei due personaggi inizia qui e occupa quasi tutto il romanzo. Per 200 pagine il loro paesaggio diventa il nostro: montagne, neve, vento. Candore. E non è un tempo clemente, quello dell’Islanda in inverno, ma prende le fattezze della morte in agguato. Perché la morte, in queste terre, non è nera come il carbone, ma bianca come la neve, come la tristezza degli angeli. «Ma cos’è che li rende tristi?»

Il viaggio è un continuo spalleggiare la morte, perdersi nella tempesta, rischiare di lasciarsi andare a un sonno perpetuo, sperare in un rifugio dove smettere di respirare, almeno per poco, la neve. Raschiarsi il ghiaccio dalla barba, dai vestiti, dal naso, non cadere a terra mentre si espletano i bisogni primari; e in questa tempesta l’unico modo che hai per sentirti vivo è attraverso il ricordo, e le parole. Così il ragazzo diventa colui che parla troppo, che recita poesie, che vuole conoscere meglio cosa giace nel cuore del postino, mentre Jens, uomo grande e silenzioso, con il senso del dovere più forte di ogni cosa, sa solo di dover consegnare la posta a tutti i costi, non perdere di vista il ragazzo, tornare a casa, dal padre e dalla sorella. E dalla donna che ama. Jens sembra essere l’opposto del ragazzo. Non sa muoversi in mare e non vuole sprecare parole nel freddo della tempesta. Eppure le continue domande del ragazzo, le sue poesie, quelle maledette parole che uccidono, salvano e tengono compagnia come un faro, spingono i due personaggi a fare breccia l’uno nel cuore dell’altro.

Nel libro echeggia tra la neve una voce corale che apre le due sezioni e che abbiamo già ascoltato nel primo volume. È una voce che proviene dall’aldilà, è la voce dei morti in mare, o nella neve, ma non è temibile o spaventosa. È la voce di chi, pur avendo nostalgia della vita, incita l’uomo a stare nel qui e nell’adesso: «le cose che sappiamo, le cose che abbiamo imparato non le abbiamo apprese dalla morte ma dalla poesia, dalla disperazione e infine dai ricordi felici, come dai grandi tradimenti […] Ma se dimenticate di vivere finirete come noi, un gregge smarrito tra la vita e la morte». Sognate, ma a occhi aperti, sembrano dire; sognate, ma continuate ad avanzare, anche quando il gelo copre ogni cosa.

Pur declinato in modo diverso, il contrasto tra la vita e la morte è un tema che ritorna. Nel primo romanzo era stata la morte di Bárður a dare la possibilità al ragazzo di iniziare una nuova vita. Adesso, in questo infinito viaggio nella neve, i defunti parlano e indicano la strada, aiutano i vivi a vivere ancora, piangono perché si sono persi per sempre, ma non vogliono compagnia nell’aldilà. Così, quando il freddo diventa insopportabile e le parole non trovano la forza di uscire, ad aiutare non sono soltanto i ricordi dei vivi che abbiamo lasciato, e dei corpi che ci hanno amato e che abbiamo perso, ma anche dei defunti che non abbiamo mai conosciuto: «chi muore però non ci lascia mai del tutto, e questo è il paradosso che ci consola e ci tortura al tempo stesso, chi muore è vicino e insieme lontano». Tuttavia, questa continua dialettica tra chi rimane e chi va via, sembra suggerire che a urlare forte, più forte della tempesta, è sempre la vita che si rifiuta di lasciare la presa anche quando tutto sembra cadere, inghiottito da una tristezza bianca che promette pace.

Anche nel secondo volume della trilogia ad accompagnare ogni pagina sono le parole e il loro peso: «Alcune parole sono come bozzoli nel tempo, e racchiudono forse il ricordo di te». La loro importanza adesso è accompagnata da qualcosa che, fino a questo momento, era stato più flebile: il corpo, la realtà, l’altro. Il calore di un bacio, un abbraccio, stare vicini, petto contro petto, alito contro alito per sopravvivere al freddo e alla morte, rendono la tristezza degli angeli meno avida di nuove vite.

Stringiti a me e non farà più freddo.
Stringiti a me e saremo meno soli.
Stringiti a me e tutto sarà più bello.
Stringiti a me e non temerò la morte.
Stringiti a me e tradirò ogni cosa.

Ancora una volta l’autore non delude con la sua prosa che sa di poesia, di nenia antica. Stefánsson, infatti, è conosciuto anche per le sue raccolte di versi, l’ultima pubblicata a settembre di quest’anno sempre da Iperborea dal titolo Quando i diavoli si svegliano dei, ed è proprio in una poesia che egli stesso dichiara apertamente il suo amore per la lingua:

non ho niente da dire ma
la lingua
è la donna della mia vita;
chino ai suoi piedi
sospetto il tradimento a ogni parola
a ogni lettera.

In questo viaggio che sembra fin troppo dilatato e greve per due persone perse dentro sé, prima ancora che nella tempesta, Stefánsson ci accompagna con la grazia delle sue parole, dirette e poetiche, veraci e illusorie insieme. 

A fare capolino è sempre l’incertezza della strada che potremmo percorrere per capire chi siamo davvero e, insieme, la certezza che la vita è ancora una scelta a cui non vogliamo rinunciare. Riuscire a trovare l’ingranaggio giusto, il sentimento esatto, la motivazione impellente, forse è questo il vero viaggio epico.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Adele Licciardi

Nata a Ragusa il 26 maggio 1991, ha frequentato il liceo classico Secusio Bonaventura di Caltagirone. Dopo il diploma continua gli studi umanistici iscrivendosi alla triennale in Lettere moderne presso l’università di Catania e conclude il suo percorso universitario con la laurea magistrale in Filologia moderna nel 2022.

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