26 Luglio 2023

Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori? “Paradiso e Inferno” di Jòn Kalman Stefànsson

di Adele Licciardi

La neve, il sole.
Il mare, le montagne. 
La vita, la morte. 
L’Islanda, tutto il resto del mondo.

Un’isola fatta della stessa sostanza dei contrasti. Con il suo inverno rigido e la fatica che indurisce mani e cuore, come quella che porta i pescatori ad affrontare il mare sotto un cielo che può decidere se proteggerli o affondarli. Piove sui giusti e sugli ingiusti, recita il Vangelo. Allo stesso modo la tempesta e il freddo si scagliano sopra i cuori puri e impuri, senza distinzione. Non è sufficiente pregare per la propria salvezza o eseguire tutte le azioni in modo impeccabile. Basta un vento che soffia più forte, o un minimo errore di distrazione, e si diventa cibo per pesci

È su questa terra fredda e magica che si apre Paradiso e inferno di Jón Kalman Stefànsson, pubblicato per Iperborea nel 2011 e il primo della Trilogia del ragazzo

Una voce corale schiude le vicende di alcuni personaggi, e tra tutti il ragazzo, protagonista senza nome della narrazione. Siamo nell’Islanda settentrionale e alcuni pescatori, capeggiati da Pétur, attendono finalmente la notte propizia per uscire in mare a caccia di merluzzi. Bárður e il ragazzo vengono descritti sin da subito come due pescatori sui generis: amanti della letteratura e della poesia, sognano un giorno di vedere il mondo e di trovare un senso alla propria esistenza: «vuole realizzare qualcosa in questa vita, imparare le lingue, vedere il mondo, leggere mille libri, vuole arrivare all’essenza delle cose, qualunque essa sia, vuole scoprire se c’è un essenza…»; ma la vita immaginata deve fare i conti con quella vissuta ogni giorno, perché «dopo un’intera giornata estenuante passata a remare, fradici e infreddoliti dopo dodici ore a fare erba negli acquitrini, a quel punto i pensieri possono essere talmente pesanti che non riescono nemmeno a sollevarsi, e allora l’essenza è lontana miglia». Questo non li ferma dal continuare a leggere, sognare, immaginare, nonostante entrambi siano poco compresi all’interno di una logica in cui a contare è la sopravvivenza, la pesca dei merluzzi e le ore che separano dall’approdo in terra e dalla salvezza, seppur temporanea. 

Da una parte, dunque, la vita esterna e dura, fatta di bisogni materiali: pescare per sopravvivere, ripararsi dal freddo, mangiare, pregare per la propria salvezza; dall’altra la vita interiore, fatta di bisogni immateriali: cercare l’essenza, domandarsi il senso delle cose, immaginare lunghi capelli che svolazzano al vento. La prima sfera gira intorno alle barche e al mare. La seconda intorno alle parole, quelle scritte, quelle lette.

Una terra intessuta di estremi e che proprio in virtù di questo non permette vie di mezzo e, soprattutto, non invita a soffermarsi troppo su riflessioni apparentemente sterili, perché chi lo fa potrebbe rischiare anche di morire. Ed è quello che accade a Bárður: deliziato da un verso de Il paradiso perduto di John Milton letto poco prima di partire in mare, dimentica la cerata sul letto: ma il freddo non perdona nemmeno i sognatori e i poeti.

Da questa tragedia parte il vero nucleo della narrazione: il viaggio iniziatico del ragazzo. Addolorato e pronto anche a morire pur di non sentire più la sofferenza, il ragazzo abbandona il gruppo dei pescatori per incamminarsi verso il villaggio e riportare indietro il libro che aveva ucciso l’amico.

Nel corso del suo viaggio, nell’incontro con i diversi personaggi del paese, la narrazione continua a toccare altissime vette di lirismo e, insieme, continua a profilarsi il susseguirsi di contrari: la luce e il buio, il mare e le montagne, la neve e il sole. Ma insieme a questi si fa sempre più chiaro il macro-contrasto del romanzo: la vita e la morte

Perché l’inferno può esistere anche in un luogo candido come l’Islanda, sotto la neve; perché l’inferno è non sapere se siamo vivi o siamo morti; perché l’inferno è capire troppo tardi di aver perso l’occasione per vivere davvero.

Da una parte c’è costantemente la ricerca di un senso («che senso ha la vita» si chiede il ragazzo), c’è la voglia di morire, di far cessare ogni dolore, ogni sofferenza, ogni mancanza. Dall’altra, forte tanto quanto la morte e a volte di più, c’è la vita, la sopravvivenza. Il ciclo della natura, il susseguirsi delle stagioni e, con loro, il tempo che scorre, porta a percepire meno le ferite, a dimenticare il dolore. Lo spirito di sopravvivenza che ha la meglio su ogni creatura, persino sull’uomo senziente, porta a urlare in silenzio «Sono qui, sono vivo, e non voglio ancora morire».

Possiamo definire Paradiso e inferno come l’inizio di un viaggio di formazione in cui è proprio la morte dell’amico a permettere al ragazzo di abbandonare la vita da marinaio e andare verso l’ignoto, verso la scoperta di se stesso, perché l’unica cosa che il ragazzo sa con certezza è non sapere quale sia il suo posto. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori, come canta De Andrè?

Jòn Kalman Stefànsson

La scrittura di Stefànsson è delicata e decisa allo stesso tempo e si potrebbe descrivere come prosa lirica per il modo che ha di pescare attraverso le parole ciò che giace nel cuore dell’uomo e, ancora, per l’accurato utilizzo di metafore e accostamenti che vedono continuamente l’uomo accanto alla natura.

La ricerca dei termini esatti, puntuali, è una delle parti fondamentali nel lavoro di uno scrittore e l’autore non si sottrae a questo compito. La poesia, la letteratura e le parole sono centrali all’interno del nucleo narrativo di Paradiso e inferno: salvano e uccidono, dissetano e aumentano la voglia di sapere, così che la costruzione di questo romanzo non sembra altro che il riflesso del suo contenuto. «Non abbiamo bisogno di parole per sopravvivere, ne abbiamo bisogno per vivere.» Eppure chi si sofferma su di esse rischia di morire. Forse, però, quegli attimi di eternità provati quando le parole partono mute per urlare tempeste dentro di noi valgono ogni briciolo di vita. Battono anche la morte.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Adele Licciardi

Nata a Ragusa il 26 maggio 1991, ha frequentato il liceo classico Secusio Bonaventura di Caltagirone. Dopo il diploma continua gli studi umanistici iscrivendosi alla triennale in Lettere moderne presso l’università di Catania e conclude il suo percorso universitario con la laurea magistrale in Filologia moderna nel 2022.

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