27 Settembre 2023

La morte del sacro e il niente dell’umanità. “Sacro niente” di Giovanni Bitetto

di Giada Di Pino

Sta lì, col braccio alzato, il sorriso ingessato appena accennato. Immobile nel suo saio di pietra, la catena del rosario che pende su un fianco incollata a esso. Gli occhi vacui, spenti, che ti guardano. La barba riccia, che il vento non scompiglia. La statua di san Pio sta lì, in quello spiazzo alla fine del viale, nel giardino che circonda la villa adibita a camera ardente perenne, in cui i morti e i vivi si susseguono in una parata di lutto e di lacrime.

Sacro niente è un romanzo; è una raccolta di racconti; è una, o meglio, molte confessioni. È un libro come raramente se ne trovano, per struttura, importanza e varietà delle tematiche trattate e per tono narrativo. Ma andiamo con ordine.

Il protagonista e voce narrante (infatti, come nel caso del libro precedente di Giovanni Bitetto, Scavare, le due cose coincidono) è la statua di san Pio: è sua la voce che unisce i diversi racconti, che narra la sua storia, da quando era una parte della roccia della cava, fino alla sua metamorfosi nelle mani degli scalpellini, e dunque alla sua collocazione sul piedistallo nel giardino. Tuttavia, è sua anche la voce con cui si esprimono gli uomini e le donne che si soffermano davanti a lui e che raccontano le loro storie: la statua dà voce ai loro pensieri, e il romanzo che ne viene fuori è corale, polifonico. E al tempo stesso non lo è, perché la voce è una, è sempre la stessa: una polifonia all’interno di un unico, grande monologo, che è anche una narrazione. 

Giovanni Bitetto

La complessità strutturale, però, non si ferma qui. Prendendo ancora una volta le mosse da Calvino e dal più sperimentale dei suoi romanzi, Se una notte d’inverno un viaggiatore, alcuni dei capitoli che compongono Sacro niente hanno un titolo “componibile” che racchiude l’essenza stessa della narrazione:

«Ero solo roccia
Scolpita nel buio
Da mano amica
Per ascoltare in silenzio
Fino a tornare polvere».

La conclusione, come in una struttura circolare, riallaccia i nodi del discorso, compiendo e al tempo stesso frantumando l’opera di umanizzazione della statua: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai» (Genesi 3, 19). E arriviamo così a parlare del tema centrale del romanzo, che funge da perno a cui si agganciano tutti gli altri temi: la morte

Che si trattasse di questo, ci è stato chiaro fin dalle prime righe di questa recensione, e fin dalla prima riga del romanzo stesso: «Ai funerali si piange, si sbuffa, si sta in silenzio, si ride anche». La morte è il vero scenario, l’ambientazione metaforica di questa narrazione, e non solo perché il luogo fisico in cui si svolge la vicenda è già un luogo di veglia funebre e di funerali. 

Infatti, a prostrarsi e a rivelarsi davanti al santo si susseguono tanto i funzionari e gli addetti che lavorano per l’agenzia di pompe funebri, quanto e soprattutto coloro che hanno perso qualcuno, i parenti dei morti che, di volta in volta, occupano la camera ardente della villa. La morte diventa, così come già in Scavare, l’espediente che porta a galla la verità: l’amante di un avvocato che ha partorito da poco un bambino, la nonna di una ragazza che si è tolta la vita, il figlio che odia tanto il padre quanto lo zio, il padre che piange la rovina della sua carriera più della morte del figlio, un allievo che si innamora della moglie del suo maestro. Poi ci sono i lavoratori: il proprietario, suo figlio, il barbiere, la sarta, l’autista, l’addetto alle pulizie. Storie di uomini e donne che non riescono a raccontare la verità, che nascondono, che confondono i valori insieme alle loro vite: un’umanità misera e miserevole, in cui non ci sono buoni sentimenti, non c’è eroismo, non c’è gioia; in cui l’amore è dolore e pianto, in cui la vita è segnata dall’infelicità, e i pochi attimi di speranza sono l’illusione che manda avanti la giostra. Un’umanità che spinge il lettore a provare pietà e disgusto insieme, a guardarsi dentro e a trovare l’orrore. 

Giovanni Bitetto scava col bisturi le interiora sentimentali di un’umanità che sembra sempre più ferina, rabbiosa, fredda e cinica, dedita alla menzogna e al tradimento; le interiora di un’umanità che non merita salvezza e neanche la chiede.

Attorno alla morte ruotano altre tematiche, di cui abbiamo chiesto delucidazioni all’autore nel podcast dedicato alla nostra intervista e che dunque vi invito ad ascoltare. 

Il primo è quello della colpa: tutti i personaggi portano il peso di un crimine, di qualcosa che hanno commesso o che hanno provocato; sono colpevoli a volte anche di indifferenza, e conoscono bene la causa del loro dolore. Non ci sono vittime, ma tutti sono anche carnefici. Come, d’altra parte, ciascuno di noi, se ci fermassimo a riflettere. Tutti siamo carnefici.

Eppure, esiste nel romanzo di Bitetto una dicotomia, un gioco di potere, altro tema fondamentale, che incarna il substrato culturale in cui viviamo: gli aguzzini per eccellenza sono sempre gli uomini. Uomini che godono del loro potere, che si nutrono di ambizione, che pagano il debito che riscuotono con l’orgoglio, con la carriera, con un maschilismo e un machismo che li porta a venire inevitabilmente schiacciati dagli eventi, che li conduce inesorabilmente alla tristezza di quella camera ardente. Coloro che vengono calpestati, di cui sentiamo puntualmente le testimonianze, non esenti da altrettante colpe e delitti, sono perlopiù donne e giovani. Sono perlopiù famiglie, nuclei di conflitti in cui l’essere umano saggia se stesso e costruisce le sue prime relazioni, conduce le sue prime battaglie, in cui i vincitori e i vinti sono sempre gli stessi. Ed ecco che qui si instaura un’altra tematica: il conflitto tra ciò che vive e ciò che muore, tra i vecchi che temono la loro dipartita e i giovani che vogliono surclassarli, abbattendo gli schemi piramidali in cui vengono incasellati nel contesto sociale e familiare tipico del Meridione, ma che non ci riescono, essendo già degli sconfitti verghiani. Eppure, se costruissero insieme, come i due scalpellini, creerebbero speranza. Una speranza vana, certo; una speranza ammantata di una sacralità vuota. Ma pur sempre una speranza. E forse è proprio in queste due figure, nei creatori della statua di san Pio che, se Giovanni Bitetto ha voluto farlo, si racchiude un messaggio, uno sguardo sul futuro, nonostante si tratti di un futuro di polvere.

Andando poi al titolo, Sacro niente, ecco che ci troviamo di fronte a un problema che si presenta più volte davanti ai nostri occhi e che moltǝ autorǝ elaborano ed esplorano in maniera diretta o meno (penso ad esempio a Il Regno di Carrère o al recentissimo Come acqua comanda di Erica Donzella). Questo romanzo ci pone davanti già con il suo titolo a un altro conflitto,e  al tempo stesso a una presa di coscienza, che si dirama in due direzioni. La prima è connessa alla ritualità, a un susseguirsi di tradizioni religiose che hanno perso ormai il loro significato profondo, mantenendo solamente una superficialità di stampo culturale. Riti sacri che rivestono un involucro vuoto, che contengono un niente. La seconda si sviluppa invece con il rapporto che l’uomo moderno ha col sacro, con la religiosità, anch’esso vuoto: i personaggi che sfilano davanti la statua di san Pio si soffermano davanti a lui, gli parlano, rivelano i loro più oscuri segreti, cercano un contatto, una consolazione, il conforto nel sapere che non è tutto vano, che il dolore ha un senso; ma davanti a loro c’è una statua. I loro monologhi sono a senso unico. La statua li riporta, ma non risponde mai, non c’è mai un dialogo, perché nessuno di loro è capace di ascoltare. Tranne uno, tranne un bambino, il figlio del proprietario: l’unico dialogo lo vediamo instaurarsi in questo caso, nel personaggio che più rappresenta l’innocenza. Eppure, il gesto finale del bambino ci riporta proprio alla vacuità, al niente, all’impossibilità di un qualunque dialogo col sacro. Ciascuno di questi personaggi, dunque, cerca un appiglio nel Sacro ma non trova niente.

Parlare di un libro come Sacro niente è difficile. Sono così tante le allegorie e le metafore che esso racchiude, che elencarle in una recensione è quasi impossibile. Sacro niente è una disamina, un’analisi della parte più intima e nascosta dell’animo dell’uomo moderno. È il perfetto prosieguo di Scavare, come se l’autore avesse allargato il suo sguardo per comprendere in esso più e più individui, esempi da portare sotto gli occhi del lettore. Come se lui stesso fosse la statua di san Pio, che presta la sua voce a chi gli cammina accanto e ne ricostruisce le storie, il braccio alzato non per benedire, ma per scrivere.  

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Giada Di Pino

Ha lavorato presso la Leonida Edizioni, ha frequentato il Master in Editoria della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e ha svolto uno stage presso Il Saggiatore. Oggi lavora come editor freelance e come insegnante. 

Leggi di più 


Potrebbe interessarti: