16 Maggio 2024

Un universo di carta e di parole. Intervista a Martina Ásero, autrice di Sottovoce

di Adele Licciardi

Intervista a cura di Adele Licciardi

Martina Ásero nasce a Catania. Si laurea in Lettere e in Filologia Moderna, per poi conseguire una seconda laurea in Lingue e letterature straniere. Oltre a essere una scrittrice è anche un’insegnante e dirige un centro di formazione artistica, Spazio Sesto Senso. Dal 2016 gestisce un seguitissimo canale Youtube dedicato ai libri, Ima AndtheBooks. Fra le sue opere troviamo Blind (2008), Il sogno e la visione (2016), Niente posto per le fiabe (2021), Quello che resta (2022).

Adele Licciardi: Sottovoce è il romanzo che arriva dopo Il sogno e la visione (2016), Niente posto per le fiabe (2021) e Quello che resta (2022). Sei un’insegnante e dal 2016 gestisci anche un canale Youtube dedicato totalmente ai libri e in cui condividi le tue letture e le tue esperienze. Il tuo mondo sembra così assorbire linfa proprio da questo universo di carta e parole. C’è stato un momento preciso nella tua vita in cui hai capito che non potevi rinunciare alla scrittura e all’arte per esprimere davvero te stessa? C’è stato un momento preciso nella tua vita in cui hai capito che Martina non sarebbe stata davvero Martina senza tutto questo?

Martina Ásero: Ho avuto un rapporto molto ambivalente con la mia natura artistica. La scrittura, il teatro e la coreografia mi hanno permesso di trovare altre risposte ai problemi della vita fin da piccolissima, ma al contempo mi hanno fatta sentire spesso fuori posto. Molte volte ho nutrito il desiderio di essere come tutti, per citare un libro popolare, ma da qualche mese sto prendendo consapevolezza che una rosa non può fare altro che la rosa, così come un faggio non può essere altro che faggio. Mi sto riappacificando con la parola artista e accetto la pelle creativa dentro la quale crescere. All’occorrenza la cambio, come un serpente, ma è solo la muta naturale; l’essenza resta. Credo di averlo capito di recente e grazie a un libro – ancora una volta, un libro –, o meglio IL libro, La recherche proustiana. Leggere Proust mi ha permesso di riconoscere chi sono, forse, per la prima volta. In lui mi sono specchiata e ho visto che «la vita, finalmente riscoperta e illuminata, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura».

A.L.: Una delle regole implicite di uno scrittore è che per imparare davvero a scrivere devi leggere tanto, e il tuo canale Youtube ti mostra prima di tutto come una lettrice affamata.  Secondo te, quanto è importante la passione per la lettura nella vita di uno scrittore? E quali sono gli autori o i romanzi a cui fai spesso riferimento e che rappresentano il tuo sostrato letterario?

M.Á: Penso che per scrivere non serva leggere tanto, ma per scrivere appena decentemente bisogna leggere moltissimo; e scrivere, anche. Si impara osservando i maestri, ma si fa pratica a bottega, sperimentando, testando i propri suoni e significati. Anche imitare è importante all’inizio, e non è certo disdicevole: perché i pittori imparano copiando Giorgione e Raffaello e chi scrive non dovrebbe emulare Steinbeck, Kafka o London? Ho citato questi scrittori perché La valle dell’Eden, La Metamorfosi e Martin Eden sono testi che amo, ma ce ne sono tantissimi altri. Sono cresciuta con Dickens e Wilde, poi mi sono innamorata della letteratura giapponese e di Haruki Murakami, della sua scrittura lucida e onirica. Adoro Amélie Nothomb, le sue frasi da sparatoria, i dialoghi serrati e la crudeltà fiabesca. Fra gli italiani, senza dubbio le materne mucose della prosa di Gesualdo Bufalino, straordinaria scoperta universitaria di bellezza inaudita. 

Monastero dei Benedettini, Catania

A.L.: Ci sono diversi motivi che portano alla scrittura: alcuni lo fanno per diletto, altri perché sentono una vera e propria urgenza e scrivere diventa quasi terapeutico. Quando ho letto Quello che resta mi è sembrato che ci fosse una vera e propria urgenza nella tua scrittura, e che scrivere sia stato anche un modo per verbalizzare qualcosa che stava dentro di te. Con Sottovoce è successa la stessa cosa? 

M.Á: La scrittura per me è sempre stata una grande psicoterapeuta. Mi permette di dare ordine al caos, o semplicemente di accoglierlo, come è accaduto con Quello che resta, che è sgorgato in modo quasi ipnotico e con la cadenza delle sedute cliniche. Ogni settimana, per circa due mesi, nelle ore buche tra una lezione e l’altra, andavo in un bar vicino la scuola e scrivevo su fogli bianchi A4 con una matita molto appuntita. Quello che resta è nato in trance, nelle settimane in cui cercavo di elaborare che il cervello di mio padre aveva prodotto una neoplasia al quarto stadio e che presto avrebbe lasciato la forma fisica. Anche Sottovoce, che è stato scritto nel 2013, ben prima di Quello che resta (anche se è stato pubblicato dopo), aveva l’intento iniziale di elaborare un bel groviglio psichico. Lo scheletro è stato composto in tre settimane, nella cucina di un affittacamere della provincia di Novara, dove mi trovavo per una supplenza temporanea. Poi l’ho rimaneggiato e ampliato negli anni, quindi ha avuto una gestazione molto più lunga di Quello che resta, forse perché la matrice da cui è emerso aveva origini molto più antiche.

Monastero dei Benedettini, Catania

A.L.: Il protagonista di questo libro è il non detto e, al tempo stesso,  la paura di dire troppo, non soltanto agli altri ma anche a sé stessi. Lo vediamo con i genitori di Alba, con i due protagonisti Alba e Alì, ma anche con lo stesso Flavio. Come è nata l’idea? 

M.Á: Dice Malcolm nel IV atto del Macbeth: «Date parole al dolore. Il dolore che non parla sussurra al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi». Sono cresciuta accanto a persone che hanno scelto di farsi spezzare il cuore pur di custodire il dolore nel silenzio. Anche io l’ho fatto spesso, e solo di recente ho iniziato a imparare quanto può essere deleterio per la salute fisica e mentale. I personaggi del libro sono la reificazione di questo non dire, la dimostrazione del disorientamento che proviene dal silenzio.

A.L.: C’è un verso di una canzone che dice «nella memoria se ci fa cambiare, nella memoria se ci fa incontrare». Il passato ha un’ingerenza importante all’interno del romanzo: Alba non riesce a superare il suo, ad esempio, e poi si scontra con quello della nonna. Quanto è importante, per te, il rapporto con il passato? E quale atteggiamento dovremmo avere nei suoi confronti?

M.Á: Io credo che il passato sia molto pericoloso. Si rischia di restare intrappolati dentro i ricordi, come i fuggiaschi nel castello di Atlante, e di vivere un’esistenza vicariale, l’esistenza delle ombre. L’unico atteggiamento consigliabile verso il passato è un connubio di gratitudine e distacco, mentre qualsiasi forma di rancore o nostalgia andrebbe considerata un veleno. Quello che io cerco di fare, non sempre con successo, lo ammetto, ma almeno con intenzione, è filtrare gli eventi di ieri in un ampio colino, lasciare passare ciò che può essere reinvestito o trasformato, e scartare le scorie, che inquinano e imputridiscono e non apportano alcun bene all’evoluzione. 

Monastero dei Benedettini, Catania

A.L.: Tommaso e Teresa, i genitori di Alba, sono due personaggi molto diversi tra loro. Lui un po’ succube della moglie, dal carattere più bonario, lei, invece, donna in affari che sembra non riuscire a uscire dai binari che si è costruita. Entrambi sembrano dei cliché, soprattutto rispetto ad altri personaggi, più tridimensionali. Perché li hai costruiti così?

M.Á: La fisionomia presumibile di Tommaso e Teresa è stata voluta. Io vengo dal teatro e nel teatro è divertente mettere in scena i personaggi stereotipati, per poterli smontare; se sono circondati da personaggi tridimensionali il loro piattume si esalta ed è esilarante. Nella narrativa il personaggio cliché viene evitato come la pasta alla carbonara in un ristorante britannico, ma anche lui ha un suo potenziale, inserito nel contesto giusto. Manovrare questi due burattini in una scena di rotondeggianti personaggi in crisi è stato molto divertente. 

A.L.: Nel romanzo, durante una lezione di filosofia, Alì illustra il mito della caverna di Platone. Mi è sembrato abbastanza emblematico all’interno del romanzo. Ha un significato ben preciso per i personaggi? Anche per te stessa?

M.Á: Ho sempre avuto un debole per la filosofia e Platone ci ha fornito una chiave di interpretazione del mondo che ancora oggi si rivela funzionale e chiarificatrice. Penso al modo in cui il mito della caverna è stato riproposto in Matrix dalle sorelle Wachowski e ho la conferma di quanto sia trasversale. Nel romanzo la filosofia ha un ruolo importante, perché è la materia che Alì ha scelto di studiare all’università – ed è il suo non detto, visto che non può dichiararlo alla luce del sole – ed è attraverso il percorso di conoscenza nel quale si immette che comincia a scorgere il suo ruolo di rivelatore delle verità nascoste. Certo, Alì è un personaggio controverso, e la sua presunta illuminazione non ha niente di lindo e santo. Così subentra un’altra domanda: se la verità che credi di aver visto non è la Verità, ma solo la tua verità, e cominci a diffonderla con sicumera e intransigenza, stai facendo del bene all’umanità o stai solo giocando al profeta diffondendo confusione e ignoranza? 

A.L.: In una delle presentazioni che ho seguito hai detto che tra i personaggi quello in cui c’è maggiormente la presenza di “Martina” è il cane. Quanto è difficile per te, quando scrivi, non scrivere troppo della tua vita e di te stessa?

M.Á: Non è eludibile. Penso che scriviamo sempre di noi stessi. Se non della nostra esperienza autobiografica in senso stretto, scriviamo di ciò che i nostri occhi hanno visto, di ciò che l’amigdala ha memorizzato e delle elaborazioni che gli stimoli sensoriali ed esperienziali hanno processato. Qualsiasi atto creativo è autobiografico, perché nasce da un impulso o da un dettato interno che è proprio della persona. Ciò che varia è il grado di immersione, o di camuffamento, in questa restituzione. Ritorno ancora al teatro: chi frequenta il lessico scenico sa che il corpo altro non è che un sussidio e che dai personaggi bisogna farsi abitare affinché siano credibili. Scrivere, come recitare, è aumentare l’esposizione alla vita. È la scrittura, come la recitazione, a rendere la vita più autobiografica

A.L.: Sottovoce è stato pubblicato da CentoAutori Edizioni. Come è stata la tua esperienza editoriale?

M.Á: Ottima. Emanuele Bosso e Vittoria Russo hanno seguito il testo con cura, ne hanno dato la giusta forma e mi hanno permesso di parlarne in diverse occasioni. L’idea di inserire la foto trovata da Alba in formato cartolina tra le pagine del libro è stata molto bella.

Monastero dei Benedettini, Catania

A.L.: Sottovoce è il secondo di una trilogia ambientata tutta a Catania. Il terzo romanzo è già in cantiere? Lo vedremo presto?

M.Á: Sottovoce arriva dopo Niente posto per le fiabe, che è stato pubblicato nel 2021 da Caravaggio Editore. Insieme costituiscono i primi due capitoli di una sorta di trilogia catanese, con storie e personaggi differenti, ma tutti attivi nella città etnea. Ho terminato il terzo romanzo a gennaio 2024. Il titolo attuale è Il castello di vetro. Mi emoziono anche solo a scriverne adesso, è un libro molto importante per me. Sto valutando quale possa essere la collocazione editoriale più idonea, ma confido di vederlo presto nero su bianco.

© Riproduzione riservata.


titolo: Sottovoce
autore: Martina Ásero
editore: Cento Autori
anno: 2022
prezzo: € 15,00


Adele Licciardi

Nata a Ragusa il 26 maggio 1991, ha frequentato il liceo classico Secusio Bonaventura di Caltagirone. Dopo il diploma continua gli studi umanistici iscrivendosi alla triennale in Lettere moderne presso l’università di Catania e conclude il suo percorso universitario con la laurea magistrale in Filologia moderna nel 2022.

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