31 Maggio 2023

Un grimaldello di carta e inchiostro. “Platone è per domani?” di Alessandro Salerno

di Daniele Di Martino

Mi capita di tornare indietro con la memoria al periodo del mio diploma, anno di grazia 1997, e ogni volta sembra siano passate delle ere geologiche. E in effetti, per qualcuno dei ragazzi che tra poco meno di un mese vivrà quella stessa esperienza, ventisei anni possono davvero esserlo. Tuttavia, mi chiedo, la scuola pubblica italiana di allora era davvero tanto diversa da quella attuale? Quali mutazioni ha subito? Si è trattato soltanto degli inevitabili cambiamenti dettati dal cambiamento della società o c’è stato invece alla base un intento preciso e premeditato per renderla socialmente innocua, meramente nozionistica e allineata a un modello aziendale?

Come raccontare questo declino, le piccole ma continue mutazioni che hanno svilito il ruolo dei docenti e il loro rapporto con gli studenti, e di pari passo denunciare l’allarmante condizione in cui versa la scuola pubblica oggi? 

Busto virile identificato con Dioniso o Platone (particolare), I sec. a. C., bronzo, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Alessandro Salerno, docente catanese di filosofia, già autore di diverse pubblicazioni storico-filosofiche e letterarie, sceglie di farlo ripercorrendo vent’anni di insegnamento e di vita spesi tra le mura scolastiche. Vent’anni consacrati alla missione di alimentare il sacro fuoco della curiosità e del pensiero indipendente nelle centinaia di studenti che si sono avvicendati tra i banchi delle aule di ogni genere. Da quelle classiche a quelle virtuali della DAD, fino a quelle più insolite all’aperto o in una biblioteca scolastica eletta a propria aula personale, in cui le lezioni erano aperte anche agli studenti di altre classi, in una continua contaminazione reciproca, appassionata e viva. Quello stesso fuoco che dovrebbe ardere anche nel petto di ogni insegnante e che invece oggi sembra essere diventato sconveniente e guardato con sospetto.

Riavvolgendo il nastro, Salerno ci racconta la sua storia all’interno della scuola pubblica. Dall’esperienza quasi surreale del concorso per accedere a una cattedra, fino a quella ancora più straniante del lockdown e della DAD. Ricorda i momenti più esaltanti e quelli più difficili, i nomi e i volti degli studenti che in qualche modo si sono incisi nella memoria, con la loro vivacità intellettuale, le loro domande a volte scomode, a volte geniali.

Giorgio de Chirico, Le muse inquietanti (1925 [1947]; olio su tela, 97 x 67 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.

Ma soprattutto parla del proprio tentativo di mantenere viva, intrigante e mai banale la trasmissione di quel sapere che non dovrebbe essere fatto solo di nozioni da immagazzinare. Dei tentativi di trovare metodologie di insegnamento e apprendimento nuove. Meno ministerialmente ortodosse, se vogliamo, ma che potessero risultare stimolanti per gli studenti, e in grado di risvegliare quella passione spesso sopita anche negli stessi docenti. Allo stesso tempo, ovviamente, racconta anche del forte ostracismo incontrato, mostrato ed esercitato da chi ha scelto di seguire pedissequamente e acriticamente ogni nuova circolare ministeriale, ogni nuova direttiva o riorganizzazione degli istituti e della scuola in generale. Il tutto in una progressiva trasformazione di tali istituti in piccole aziende che mirano solo al profitto. E all’azzeramento del dibattito, dello scambio di idee e proposte.

Gruppo di filosofi e astrologi ritratti da Raffaello nella Scuola di Atene.

L’autore paragona efficacemente la scuola al teatro, uno spettacolo complesso e variegato nel quale i docenti sono gli attori che portano in scena il magico, misterioso e complesso spettacolo dell’insegnamento. Attori che attingono a tutti i generi e le tecniche del rito teatrale per destare l’attenzione dei propri studenti. Un metaforico, perenne e ciclico rito eucaristico durante il quale lasciano che gli allievi si “cibino” del loro sapere e del loro essere, all’interno del quale, però, tutti si muovono abilmente tra la commedia, la drammaturgia e a volte, loro malgrado, anche il teatro dell’assurdo. Un teatro nel quale, tuttavia, gli studenti non sono semplici spettatori, ma attori a loro volta. In alcuni casi oneste comparse, in altri capaci di carpire quell’ars teatrale dei loro maestri fino al punto di rubare loro la scena.

Raffaello, Scuola di Atene, 1508-1511. Roma, Palazzi Vaticani, Stanza della Segnatura.

Man mano che la lettura proseguiva, la caparbietà di Salerno, per certi versi, mi ha riportato alla memoria lo Stoner dell’omonimo e celebre romanzo di John Edward Williams. Non solo per il comune pensiero che nei giorni più grigi lo porta a riflettere che un insegnante, una volta diventato tale, vede il mondo attraverso i libri e lo vive protetto da essi e dalle mura scolastiche, ma soprattutto perché, come Stoner, egli insegna per esaltare le individualità dei propri studenti, si entusiasma davanti alla loro vivacità intellettuale, combatte, anche a scapito della propria reputazione, per i principi in cui crede e che dovrebbero dare forma alla carriera di un insegnante e della scuola. Uno Stoner moderno, s’intende. Uno che, a differenza del personaggio letterario, non si arrende, non si lascia normalizzare dalla struttura scolastica e dalle dinamiche manageriali che vertono ad annullare la personalità di docenti e studenti.

Busto di Platone

Difficili le cose belle.

Platone

L’autore ricorre a questa massima greca associata al pensiero di Platone per far comprendere ai propri ragazzi un concetto antico, semplice, ma basilare: ovvero che qualsiasi cosa che valga davvero la pena costa fatica per ottenerla. Costa impegno, dedizione, e sofferenza a volte. E che a conferirgli quel particolare valore è anche l’insieme di tutto ciò che si è investito per costruirla. È con questa massima che penso si possa riassumere la missione di un insegnante innamorato del proprio ruolo.

Dissertazione tra filosofi, scolpiti in rilievo sul presunto sarcofago di Plotino.

Perché quindi leggere questo libro? Innanzitutto per la sua struttura atipica. Anzi per la mancanza, fortemente voluta dall’autore, di una struttura prestabilita che possa ingabbiarlo e relegarlo in modo automatico e rigido in un genere. Attitudine che si evince anche dallo stile in cui è scritto. A partire dalla dedica iniziale, che affronta sarcasticamente l’importante tema dell’inclusività di genere e che evidenzia come se ne stia svilendo e banalizzando il senso. Uno stile quasi colloquiale e svincolato da convenzioni stilistiche, che fa immaginare al lettore di essere in compagnia dell’autore ad ascoltare la sua storia. Tutte caratteristiche che, in un certo senso, sono di per sé già un manifesto di quel pensiero indipendente che Salerno vorrebbe fosse alla base della scuola e dell’insegnamento.
Ma anche perché è la testimonianza appassionata, senza filtri e in prima persona della drammatica situazione in cui versa la scuola italiana del presente, la quale forgerà la società del futuro prossimo. 

Giamblico

Un libro che vuole essere un megafono attraverso il quale far sentire e circolare forte la voce di chi non si è arreso. Ed è anche un’arma, infine. Un grimaldello di carta e inchiostro, che Salerno spera possa servire a scardinare questa struttura burocratica e asfissiante.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Daniele Di Martino

In antitesi con la natura tecnica dei suoi studi e del lavoro svolto, si appassiona alla lettura di romanzi thriller, spionaggio e azione. Nel tempo amplia le proprie letture a molti altri generi, sviluppando in particolare una forte passione per saggi e romanzi di storia contemporanea, distopici e ucronici.

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