19 Luglio 2023

Un viaggio intertestuale. “Quello che resta” di Martina Ásero

di Adele Licciardi

Quando diventiamo davvero grandi? E quando ci ritroviamo a essere di nuovo piccoli? Questa è la domanda che ha iniziato a rimbalzarmi in testa qualche minuto dopo aver terminato il romanzo. Qualche minuto dopo, non subito. Perché quel tempo mi è servito per ricollegare i fili di una storia che si comprende appieno soltanto alla fine, quando ci si ritrova in dovere di rifare il percorso al contrario e ritornare alla prima pagina.

Edito dalla casa editrice Nous, Quello che resta di Martina Ásero non è un semplice romanzo, ma una storia con tanti spunti di riflessione sulla vita e sulla perdita.

Una scatola, una bambina, un bambino. Una scatola confortevole e sicura, una bambina che non conosce nient’altro che quella scatola e un bambino dall’aurea virgiliana che la prende per mano per condurla in posti mai visti prima. I protagonisti della storia sono tutti qui ma sono sufficienti, perché ciò che serve per raccontare qualcosa, in fondo, è solo l’immaginazione:

«È una scatola come tante altre»
«Sei stata in altre scatole?»
«No, mai.»
«E come fai a sapere che è come tante altre, allora?»
«Lo immagino.»
«Bene. L’immaginazione è un’ottima via di fuga.»

La meta dei due giovani protagonisti è il Pozzo delle storie ma, prima di giungervi, dovranno attraversare posti strani e magici, come la Valle dei ricordi e la Fonte dell’abbondanza, camminare su un ponte stagliato sul vuoto e visitare un’enorme biblioteca. 

Il viaggio quasi dantesco della bambina, accompagnata dalla sua fedele guida, prende le sembianze di un percorso che porta a una consapevolezza prima sconosciuta. Se la scatola sembra richiamare la caverna aristotelica, il bambino, invece, sembra essere colui che porta le notizie del mondo esterno a chi, fino a quel momento, ha conosciuto soltanto le ombre proiettate sulla parete. Il modo in cui si arriva a questa consapevolezza sembra attingere un po’ dalla maieutica, un po’ dall’esperienza sul campo, ma anche dall’emulazione di chi, prima di noi, ha già affrontato determinati scogli. Così, alla fine del romanzo, non soltanto la bambina giunge al Pozzo più sapiente di prima, ma ha anche ricordato cosa aveva perso e ha accettato che, se c’è la vita, allora può esserci anche il suo opposto.  

La scelta di un determinato tipo di lessico, di certe immagini, così come l’utilizzo di alcune metafore, sono presenti per tutto l’intreccio, tuttavia saranno rivelatrici soltanto alla fine, quando ogni tassello sembrerà andare al proprio posto, quando sentirete il bisogno di ritornare mentalmente alla prima pagina.

Il testo è infarcito di citazioni, alcune nascoste, altre così tanto familiari da farci intuire come noi stessi siamo parte di un continuo intreccio intertestuale che si scioglie e si unisce, in un moto continuo e imperituro. Troviamo così il mago di Oz, il senno perduto dell’Orlando di Ariosto, Davide e Golia, ma anche Ulisse contro Polifemo o Don Chisciotte. Tante altre citazioni sono lì, pronte ad ammiccare al lettore che, durante la lettura, può divertirsi a vestire i panni del detective.

Una delle peculiarità di questo testo è l’importanza che viene data alle storie, all’arte di raccontare e anche, di riflesso, all’arte di ascoltare. Le parole possono sembrare delle semplici etichette da mettere sulle cose, da usare al momento opportuno, ma hanno invero il potere di cambiare la realtà e la nostra mente: «La tua vita è quello che tu racconti. Se vuoi migliorarla la prima cosa che devi fare è cambiare il modo in cui la narri». Con le parole, con le storie, si superano le paure, si comprendono gli sbagli, si stempera il dolore. Sono esse a costituire il filo d’Arianna per il nostro personalissimo labirinto. Verbalizzare gli accadimenti, quelli belli, certo, ma soprattutto quelli dolorosi, aiuta a farli nostri e ad accettarli. Grazie alle parole che usiamo per raccontare agli altri e a noi stessi ciò che accade, riusciamo a ridimensionare il dolore e ad accogliere una prospettiva che prima di allora non avevamo preso in considerazione

Più volte il piccolo Virgilio ricorda alla bambina che «Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni», ma credo sia più esatto dire che ogni nostra cellula è fatta di parole, storie. In una sola parola, di intertestualità.

Quello che resta sembra rivolgersi a quella persona spaventata che si cela dentro ciascuno di noi. È un sussurro di speranza nei momenti più difficili, grazie a quei consigli che in fondo conosciamo ma che letti nei libri e ascoltati da altre bocche assumono un’aura più rigorosa e veritiera. Ed è un modo per comprendere che quello che rimane non è più importante di ciò che se ne va. Infine, grazie ai brevi capitoli ricchi di dialoghi tra i due bambini, questo romanzo si potrebbe prestare per essere letto anche ai più piccoli. Le prospettive con cui guardare a questo testo, dunque, sono diverse, ma ognuna di esse porta con sé la sua verità, ognuna di esse nasce dal singolare incontro tra il lettore e il testo
Cosa resta, alla fine? Restano le storie, sì, restiamo noi, certo, ma Quello che resta è anche un omaggio a tutto quello che rimane anche se va via da noi.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Adele Licciardi

Nata a Ragusa il 26 maggio 1991, ha frequentato il liceo classico Secusio Bonaventura di Caltagirone. Dopo il diploma continua gli studi umanistici iscrivendosi alla triennale in Lettere moderne presso l’università di Catania e conclude il suo percorso universitario con la laurea magistrale in Filologia moderna nel 2022.

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