Intervista a cura di Giada di Pino.
Il decimo autore di Equilibri Precari è Giovanni Bitetto, autore di Sacro niente, Voland Edizioni, e di Scavare, Italo Svevo Edizioni.
Giovanni Bitetto è un giovane autore di origini pugliesi, ma è anche un insegnante e un giornalista culturale per diverse riviste online. Editor per NEA Magazine, nel 2019 ha pubblicato il suo primo romanzo, Scavare, con la Italo Svevo Edizioni, con cui ha vinto il Premio POP 2020. Il suo ultimo romanzo, Sacro niente, pubblicato dalla Voland Edizioni, è in libreria dallo scorso maggio.
Giada Di Pino: Ciao Giovanni, grazie per essere qui con noi. La prima domanda che ti pongo riguarda te e la tua carriera. Nella tua biografia di Sacro niente, la tua ultima pubblicazione, si legge: «insegnante, scrittore e giornalista culturale». Qual è stato il tuo percorso e cosa significa conciliare l’insegnamento a scuola con la scrittura di narrativa e il lavoro giornalistico? Quali differenze e quali punti di contatto ci sono, secondo te, in queste due diverse modalità di scrittura?
Giovanni Bitetto: Grazie a voi dell’invito! Iniziamo a mappare alcune coordinate. Banalmente: scrivere di libri si è configurata come una passione precoce, insegnare è il lavoro che faccio per vivere, invece narrare è ciò che mi aiuta a mettere a fuoco un orizzonte di senso più ampio. Il giornalismo culturale è stato il mio primo approccio con la piccola patria delle lettere nostrane, ragionare sui libri mi aiutava a raffinare la mia voce autoriale. Crescendo, uscendo dalla comfort zone dell’università, ho frequentato sempre più saltuariamente questo campo, per mancanza di tempo e di energie. L’insegnamento è una realtà quotidiana molto complessa e faticosa ma, se presa nel verso giusto, anche soddisfacente. Direi che insegnare, scrivere giornalisticamente e scrivere narrativa sono tre aspetti in qualche modo connessi, poiché hanno a che fare con la parola. Differiscono però nell’intensità con cui si adoperano determinati strumenti: nell’insegnamento si predilige una certa chiarezza di intenti per favorire la trasmissione dei saperi, nel giornalismo culturale si battono vie più speculative, infine nella scrittura di finzione si penetra la dimensione emotiva.
G.D.P.: Il tuo primo romanzo si intitola Scavare, ed è simbolico già nel titolo. Cosa c’è dietro, anzi sotto la complessa storia di amicizia che si snoda nella narrazione?
G.B.: Il mio primo libro era il tentativo di restituire i saliscendi cognitivi e morali di una mente in rapporto a un modello idealizzato. La storia d’amicizia di Scavare è la parabola di un uomo che mitizza il suo defunto amico perché pensa che egli sia riuscito a pacificare i rovelli che invece attanagliano il narratore, quali: il desiderio di fuga da un Meridione che sente sterile e da una famiglia che crede origine di tutti i mali, il tentativo – a suo dire fallito – di trovare una qualche forma di verità nell’arte, il desiderio di affermazione e competizione, e al contempo la vergogna di provare un sentimento tanto feroce, insomma una generale mancanza di senso. Sono tutte sfumature di sconforto che ognuno di noi, a modo proprio, ha provato almeno una volta nella vita. Il narratore specchiandosi nel ricordo deformato di un amico che, essendo deceduto, non ha più la possibilità di correggere le convinzioni dell’interlocutore cerca di fare i conti con la propria esistenza. In un certo senso l’io narrante imputa al suo prossimo ideale quelle colpe che in cuor suo sente proprie. Un soliloquio viscerale mascherato da dialogo.
G.D.P.: Domanda forse un po’ banale, ma importante. Cos’è per te l’amicizia oggi, nel 2023, e quanto valore secondo te ha e dovrebbe avere?
G.B.: L’amicizia è uno dei pochi sentimenti che rende tollerabile l’esistenza. Sebbene ci accompagni dall’alba dei tempi è un tema che in letteratura non è stato frequentato in maniera così assidua, al contrario di altri aspetti delle relazioni umane, come l’odio e l’amore. Per questo è un campo in cui si possono usare le parole più liberamente, non zavorrati da una tradizione ingombrante, o almeno presente in tono minore. Dunque si presta bene per essere al centro di proficue soluzioni narrative.
G.D.P.: Scavare è la confessione di una notte. Qual è stata la gestazione di questo romanzo?
G.B.: La gestazione non è stata molto lunga, come del resto quasi tutto ciò che scrivo. Generalmente butto giù la prima stesura in un paio di mesi e poi passo un annetto a riscrivere e rifinire. Dopo quattro-cinque stesure ho qualcosa di decente. Successivamente dimentico nel cassetto ciò che ho scritto, in modo che si sedimenti, e dopo qualche mese torno a saggiare la validità del prodotto. Poi ci sono i tempi editoriali, ma quelli non dipendono da me.
G.D.P: Scavare ha vinto il Premio Pop 2020. Cosa ha significato per te questo riconoscimento?
G.B.: Sono contento che qualcuno abbia potuto apprezzare il mio scritto, fa sempre piacere avere un po’ di attenzione e vedere ripagati gli sforzi fatti. Tuttavia non bisogna lasciarsi ammaliare da qualche tacca sulla penna e credere che sia giusto mettere in mostra i galloni guadagnati. I premi sono cose terrene, burocratiche, che nulla aggiungono o tolgono a un’opera d’arte.
G.D.P.: Parliamo di Sacro niente. Il tuo secondo romanzo è uscito a distanza di circa quattro anni dal primo. Si tratta di un lavoro che hai progettato e portato a termine in quest’arco di tempo o era in cantiere da prima? Com’è nata l’idea di un romanzo tanto particolare?
Scavare si giocava sull’interiorità, aveva un andamento quasi diaristico, costruito su propositi evanescenti, è stato, per quanto mi riguarda, il tentativo di calibrare una voce coerente, di verificare se il canale comunicativo fosse aperto, insomma aveva quasi una funzione fatica. Poco dopo la sua uscita c’è stata la pandemia e, come tutti, ho avuto molto tempo libero, tempo che ho usato per scrivere questo soggetto che mi frullava in testa da anni. In Sacro niente ho cercato di operare nell’ambito dell’investigazione morale: ho costruito personaggi differenti per età, sesso e vissuto, postulando precetti e caratteri peculiari, e li ho messi in situazioni specifiche, immaginando come, secondo il loro punto di vista, avrebbero risposto. A osservare le loro parabole c’è la statua del santo, un narratore imparziale e mai giudicante, piuttosto curioso delle specificità umane e desideroso di distillare dei tratti comuni nei comportamenti degli uomini.
G.D.P.: Il protagonista di Sacro niente è una statua di san Pio, che da un lato racconta la sua storia, dalla cava fino all’arrivo alla sua postazione, dall’altro dà voce alle persone che si soffermano ai suoi piedi. Una statua che, paradossalmente, dà voce a degli esseri umani. Cosa significa dal punto di vista allegorico e metaforico?
G.B.: La scelta di un narratore così peculiare ha varie ragioni. L’ambientazione è quella di un Meridione generico, un paesaggio interiore più che effettivo. Statue del genere, nel Meridione da cui provengo, sono la normalità: Padre Pio è un’icona che vive fra ardore religioso e diffusione in ambito pop, il distillato perfetto della religiosità kitsch. Mi interessava indagare il rapporto fra l’uomo e l’icona, raccontare un ambito in cui può apparire naturale fare i conti con la propria vita, come può essere appunto un momento di stanca all’interno di una funzione pubblica, in cui si è posti di fronte a un simbolo che induce all’introspezione. In più volevo un narratore che fosse totalmente estraneo a ciò che viene raccontato: una sorta di “alieno” a digiuno di cose umane e quindi senza pregiudizio alcuno nei confronti di chi porge le proprie storie talvolta estreme.
G.D.P.: Per quanto sia presente già nel titolo, è difficile parlare della presenza di sacralità in questo romanzo. Non è, forse, neanche un romanzo dissacrante. In uno dei racconti/confessioni viene narrata la nascita di un bambino cieco e neuroleso che viene chiamato Pio. Si potrebbe dire che il conflitto con il sacro è un conflitto più culturale che religioso in senso stretto?
G.B.: Nel romanzo l’immaginario religioso si esprime in una sorta di burocrazia funebre. Il rito è l’algoritmo di gesti e parole collaudate sedimentato nella nostra cultura e applicabile allo iato della perdita; lo spazio perfetto per esorcizzare il dolore e per suturare il passaggio a vuoto della fine con la grammatica della celebrazione e del ricordo. Da una parte volevo sottolinearne l’importanza, eleggendolo a spazio narrativo, dall’altra volevo demistificarlo portando uno sguardo disincantato e a tratti buffonesco. Seppur da una prospettiva materialista la fede mi interessa da un punto di vista sociologico: la religione ha la capacità di imporsi come orizzonte di senso univoco, in questo mondo che non crede più a niente credere a un patrimonio valoriale ben preciso sembra un’azione nobile e donchisciottesca al tempo stesso, ho cercato di mettere in scena questa ambivalenza fra comico e tragico.
G.D.P.: Sacro niente ha una struttura ben definita e per certi versi complessa, nonostante la scorrevolezza della narrazione. Sono racconti sotto forma di confessioni che si inseriscono in una cornice. Sono storie di persone, più che di eventi. Ci parleresti di questa struttura, delle scelte che hai operato nel costruirla e di cosa significa?
G.B.: Considero quest’opera un romanzo polifonico: la prima rosa di personaggi è quella dei partecipanti alle funzioni, che raccontano le proprie storie, snocciolano le ragioni per cui partecipano a tali riti e quale rapporto intercorra con il defunto, si tratta di un modo per confrontarsi con se stessi e con il concetto di fine; poi ci sono gli inservienti dell’agenzia di onoranze funebri, lavoratori disincantati abituati a gestire quel microcosmo di ritualità, il loro è uno sguardo obliquo, parlano alla statua quasi da vecchi amici, demistificano la sacralità del luogo. Fra di essi c’è Antonio, l’inserviente preposto alla pulizia della statua, figura che ritorna ciclicamente e che sembra essere l’unico vero portatore di speranza in un contesto abbastanza cinico. Infine c’è un ragazzino, il figlio del proprietario, abituato da sempre a giocare in quel luogo, e dunque per nulla spaventato dalla parentesi del lutto. Il ragazzo immagina che la statua gli possa rispondere, dialoga con essa interrogandosi sul mondo degli adulti e su certe convinzioni che, agli occhi di un bambino, sembrano tanto assurde. Si tratta quasi di dialoghi da operetta morale, piccoli intermezzi filosofici nel flusso degli eventi. Ogni voce però è legata per tematiche e stile all’altra, ogni personaggio si riverbera nel prossimo, tenendo insieme il caleidoscopio della narrazione.
G.D.P.: L’umanità che descrivi non ha niente di glorioso, niente di eroico. Anzi, sembra in qualche modo meschina, non ci sono né buoni né cattivi; è questa la tua visione degli esseri umani?
G.B.: Poiché concepisco questo lavoro quasi come uno “studio” sul carattere umano mi interessava che le parabole, per lasciar emergere meglio le tematiche trattate, avessero un carattere estremo, a tratti esagerato. Mi piaceva mettere i miei personaggi di fronte all’idea di fine, per fare in modo che, nella parentesi del lutto, potessero confrontarsi con se stessi, fare i conti con il proprio vissuto, lasciare emergere una sintesi, genuina o fallace, della propria essenza. E allo stesso modo metterli di fronte alle estreme conseguenze del loro comportamento, per descriverne le reazioni e il nucleo intimo delle credenze di ciascuno. Di base non ho molta fiducia nell’umanità, ma certe estremizzazioni sono frutto più di esigenze narrative che di veri e propri convincimenti personali.
G.D.P.: «Ero solo roccia / scolpita nel buio / da mano amica / per ascoltare in silenzio / fino a tornare polvere». La statua di san Pio ha una sua storia, un suo percorso. C’è qualcosa di poetico. E al tempo stesso, sulla base della struttura, salta naturalmente alla mente Se una notte d’inverno un viaggiatore. Quali sono i tuoi riferimenti culturali? E quanti sono stati seguiti volontariamente e quali invece riscoperti?
G.B.: Credo che nell’atto di scrivere si riverberino, in misura maggiore o minore, tutte le influenze a cui si è stati esposti, quindi tutto ciò di cui si è fruito. In gioventù ho divorato molti autori nordamericani, per poi passare agli italiani e agli europei, credo quindi di avere una cassetta degli attrezzi abbastanza ampia da cui, di volta in volta, traggo l’arnese che considero adatto al caso. Guardo ad autori italiani in grado di giocare consapevolmente con le proprie influenze come Francesco Permunian, Filippo Tuena, Vitaliano Trevisan; e altri capaci di razionalizzare ciò che scrivono, come Walter Siti e Francesco Pecoraro. Circa l’analisi dei rapporti umani nutro infinita devozione per lo sguardo di Philip Roth e Saul Bellow. Ma potrei andare avanti all’infinito, questi sono solo alcuni nomi che ho evocato all’occorrenza e che non rappresentano un pantheon fisso a cui votarsi.
G.D.P.: Sacro niente trabocca di tematiche e problemi irrisolti della nostra società. Ci sono storie, narrazioni, che sarebbe interessantissimo analizzare anche da un punto di vista ermeneutico. Tuttavia, per non scendere troppo nel tecnico, ti chiedo di parlarci di alcune questioni che mi hanno particolarmente colpito. In Una moglie, Un figlio e nella storia Un ragazzo viene fuori un conflitto generazionale irrisolto. Nonostante questa lotta tra generazioni, nel primo caso, le figure della nipote e del nonno sono specchio l’una dell’altra. Ci parleresti di questo aspetto?
G.B.: Più che conflitti generazionali sono veri e propri conflitti familiari. La famiglia è la cellula primaria della nostra società e osservarla con una lente di ingrandimento è un buon modo per percepire i rapporti di forza che dalle relazioni familiari si riverberano all’esterno di essa, riproducendosi nel tessuto sociale. Si tratta di un piccolo laboratorio in cui tutti noi sperimentiamo il diorama di interazioni del nostro ambiente di appartenenza, venendo a patti con aspettative, desideri, conflitti. I miei personaggi in realtà, consciamente o meno, stanno problematizzando alcuni lati oscuri della nostra società: il potere maschile, l’immobilismo, la competizione, il desiderio di vendetta, il materialismo più becero. Ogni maschera trova il suo contraltare.
G.D.P.: «Il maschio è colpevole, è colpevole anche se non lo sa. Nel suo cervello balugina quel potere, lo mette in pratica in ogni modo.» Una mascolinità tossica avida e al tempo stesso vittima del potere in una società patriarcale e culturalmente ingessata. Questa sembra essere l’atmosfera che pervade sia Sacro niente sia Scavare. Ce ne parleresti?
G.B.: L’inconscio maschile è un tema che mi interessa particolarmente e che vorrei approfondire anche in futuro. I miei personaggi maschili sono attraversati dal desiderio di dominio che ha inculcato loro la società. Coloro che non se ne rendono conto agiscono in modo vessatorio, protetti dall’organizzazione sociale che non vede nulla di male in certi comportamenti. Gli altri che percepiscono un certo privilegio intrinseco nell’essere maschi rispondono in due modi: alcuni cinicamente si beano della propria posizione e fanno in modo di massimizzarne i vantaggi, altri cercano di discostarsi, di rompere questa dialettica, ma forse ricadono in una ferocia di senso opposto che non riesce a estraniarsi dalla logica competitiva. L’azione di questi ultimi non è vana, ma la strada da compiere è ancora molto lunga, e la ricerca di nuove vie di approccio al maschile deve essere calibrata anche con atti meditativi più profondi. Una ricerca che io stesso cerco di compiere come taluni dei miei personaggi.
G.D.P.: Anche Sacro niente è una confessione, anzi, un insieme di confessioni. Si nota che è un genere con cui ti trovi a tuo agio. Pensi che sia la tua cifra stilistica? Si tratta di una scelta specifica, o solo di un modo di narrazione in cui ti trovi maggiormente a tuo agio?
G.B.: Sfrutto lo spazio del racconto per cercare di enucleare determinate tematiche o condotte morali; il genere confessionale, trattandosi in soldoni di monologhi fatti “a freddo” da personaggi che ripercorro e giudicano la propria parabola, mi dà la possibilità di commentare quanto narrato, fornendo già una piccola interpretazione di ciò che accade sulla pagina. Non mi interessa comporre semplici storie in cui le vicende scorrono piane, ma vorrei anche provare ad andare più a fondo nella psicologia dei miei personaggi, soppesandoli nelle loro reazioni. Si tratta di un modo di narrare più speculativo, e forse meno immediato, me ne rendo conto, tuttavia mi piacerebbe lanciare una sfida al lettore in modo che si senta stimolato dalla molteplicità dei vari punti di vista, e che scelga la strada a lui più congeniale.
G.D.P.: Progetti futuri? Hai già in cantiere un’altra prova autoriale?
G.B.: Ho incamerato un bel po’ di materiale, e ho diverse storie che spero portino da qualche parte. Ma non so dire le tempistiche in cui le svilupperò. In generale non mi impongo una tabella di marcia perché scrivo solo quando lo ritengo necessario. Si tratta di un esercizio di catarsi personale: quando uscirà il prossimo libro vorrà dire che avrò portato a compimento l’ennesimo tassello della mia meditazione, e un pezzo della mia vita mentale o emotiva si sarà cristallizzato in qualche centinaia di pagine. Potrebbe volerci un anno o dieci, spero abbiate pazienza!
G.D.P.: In realtà, confesso (restando in tema), non tantissima, visto lo stimolo intellettuale e morale a cui mi ha condotto leggere i tuoi libri… ma non possiamo fare altro che restare in attesa!
© Riproduzione riservata.
titolo: Sacro niente
autore: Giovanni Bitetto
editore: Voland edizioni
anno: 2023
prezzo: € 18,00
Giada Di Pino
Ha lavorato presso la Leonida Edizioni, ha frequentato il Master in Editoria della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e ha svolto uno stage presso Il Saggiatore. Oggi lavora come editor freelance e come insegnante.
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