21 Settembre 2022

Il tedio e la grazia provinciale. “Altri libertini” di Pier Vittorio Tondelli

di Serena Costa

Sono qui, senza volto, con la mia altezza smisurata e indifesa, le dita che fremono inquiete a imbrattare qualcosa. I muri, i fogli, l’anima mia, qualche corpo a un angolo di strada nella notte fredda o afosa, su un tappeto volante sul Mediterraneo sconosciuto. Chissà quanta roba ho bevuto e quanta ne ho sniffata. 

Dai buchi sulla mia pelle, dal flusso delle mie vene fracassate, brandelli di uno spirito indomito che si rinnova, torrenti di parole non dette o urlate troppo forte o slummate dalla mia alla tua bocca. 

Sapessi le notti insonni, gli scantinati umidi fra sacre famiglie, infezioni, sogni e raschiamenti. Rischiarante l’amore di un attimo sulla riva di un fiume: nel ricordo, solo un odore pregnante da inseguire, come se non avessi mai cercato nient’altro. 

Del resto, cos’altro conta?

 Lo so, lo so, straparlo e non so fare null’altro. In quegli anni l’avrà detto Guccini alla Johns Hopkins: «Io parlo sempre troppo ma non ho ancora fedi».
Mi sento assalito da ricordi disordinati e corro corro corro sulla via Emilia, quasi deserta e chiassosa di luci al neon, dove fari fiochi sussurrano di antichi fuochi fatui, in cui per anni mi sono crogiolato. 

Ho i lembi degli abiti bruciacchiati e la testa troppo pesante e troppo leggera. Conto i lidi della palude dove in notti simili di scoglionamento mi sono ristorato, sbevacchiando, fumacchiando, abbassando i pantaloni a qualcuno, inginocchiato, in cerca di un patetico piacere, di un sapore nuovo, di un odore quasi dimenticato.

Mi è sembrato di aver solo corso a perdifiato, di esser fuggito per vedermi ritornare, di essermi perso per ritrovarmi o di essermi trovato per la prima volta. Ho viaggiato a rotta di collo per non mancare un aereo, un treno; per beccare uno stronzo che mi fa salire dopo ore piantato col pollice all’insù. 

A fare e disfare lo zaino sempre più sporco, sempre più bucato, sempre più marcio, che a guardarlo mi pare di guardarmi allo specchio. 

Ho viaggiato rimanendo incatenato a un letto d’ospedale, alla poltrona su cui ti ho atteso invano, dentro le bottiglie svuotate, spaccate, a fracassare il mio fegato e il mio intestino. Quante capriole dentro un letto abbandonato, tremando con il gelo nelle ossa, elemosinando la tua pelle. 

Dove sei? 

Dov’è quel che cerco? 

Non ho mai voluto, non ho mai cercato nient’altro che amore…
Mi sveglio di soprassalto, i raggi rossi del sole si allungano sull’acqua inquieta e sempre più trasparente, per quanto appaia nera; si allungano fino a toccarmi. Tengo gli occhi socchiusi, sul mio ventre sento la dolce pressione di un libro dalla copertina rossa, aperto a metà sotto il mio ombelico. 

L’ho sentito penetrare lentamente e appropriarsi intensamente del mio sonno. Per il fulmineo tempo di una siesta sulla spiaggia, la vita di qualcun altro, inesistente, e di una miriade di altra gente, esistente, è stata la mia. Sento le gambe e le braccia intorpidite, ammaccate, sento il sangue fluire al cuore. Batte forte. Il libro sul mio ventre è «Altri libertini» di Pier Vittorio Tondelli, il racconto a metà sotto il mio ombelico è «Il Viaggio»..

Pier Vittorio Tondelli, Vicky per gli amici, nel 1980 pubblica Altri libertini

Formalmente si tratta di una raccolta di sei racconti: Postoristoro, Mimì e gli altri istrioni, Viaggio, Senso contrario, Altri libertini e Autobahn. L’autore  lo riteneva un romanzo a episodi, disteso, stravaccato sulla pianura padana con le braccia tese e le dita che sfiorano l’Europa del nord alla fine di un decennio tumultuoso. Un tormento ancora troppo vicino e troppo vissuto per essere pienamente compreso: gli anni ’70. 

L’unica costante nella perseguita incostanza della raccolta è la fuga, gli svariati modi di scappare. Il solo obiettivo è perdersi, inventare le coordinate del sogno nella “grazia o tedio a morte del vivere in provincia”, nelle parole rischiaranti, perché conturbanti, di uno dei cantautori che risuona nella testa dei personaggi, i quali imparano dalla musica l’educazione sentimentale e l’impegno civile. Un impegno scostante, carico di ideali, necessariamente controcorrente, lontano da ogni rappresentanza istituzionale. Sono le storie che molti non vogliono sentire, quelle per cui molti si coprivano gli occhi, si tappavano le orecchie. 

Sono storie affollate di esseri umani, che, nel chiasso, si sentono risucchiati dal buco nero di una solitudine con le unghie sporche e i denti marci, aggrappata a sentimenti evanescenti, anelando l’amore più vero e più profondo; un amore che abbia abbastanza braccia da coprirli e proteggerli.

Tondelli non ha filtri, non edulcora immagini o parole, non si serve del pudore che si offre alla penna. La sua lingua impastata di bestemmie, dialetto, citazioni letterarie, musicali, cinematografiche, del linguaggio di quella generazione, così diretto da potersi considerare per convenzione volgare, si insinua nella bocca del lettore. La lettura è una slinguazzata carica di sapori e odori tanto forti da essere nauseanti; sono due mani ruvide che stringono la testa e tengono gli occhi spalancati su immagini che raggelano il sangue, che pesano sullo stomaco e risvegliano il basso ventre.


Alla pubblicazione, Bompiani censurò il libro, che comunque, dopo la denuncia di un privato, venne ritirato. Feltrinelli gli restituì la sua forma originaria e primordiale. Si pensò con faciloneria che il suo successo sarebbe stato effimero, ma il pubblico fu più audace. Vicky aveva avuto il coraggio di raccontare realtà tanto evidenti quanto ancora volutamente ignorate: la tossicodipendenza, l’omosessualità. 

Questi temi non sono freddamente trattati da un occhio esterno e giudicante, ma dal campo visuale profondo di chi è “a secco”, di chi non trova più una vena utile, di chi se la fa sotto e non smette di tremare.

Con Tondelli ci si immerge totalmente nell’animo di chi scopre come l’amore lo muove e dove quell’amore può condurlo, fra vergogna e bisogno di riconoscimento della sua normalità, dei suoi desideri. Desideri che in nulla differiscono da chi viene accettato da una società ottusa oggi come più di quarant’anni fa. Abbiamo tanto da imparare da ciò che può farci tanta paura da farci tremare, e abbiamo tanto da guardare, invece di cambiare strada e girare gli occhi sempre verso ciò che ci rassicura. 

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Serena Costa

Nata ad Avola il 3 settembre 1994 si è diplomata al liceo scientifico Ettore Majorana nel 2013. Si è iscritta in giurisprudenza e ha studiato per tre anni con abnegazione e ottimi risultati prima di affrontare una crisi definibile identitaria che l’ha riportata alla passione più profonda che ritiene coincidere con la sua natura: la letteratura.

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