24 Ottobre 2022

Il misantropo e il folle: storia di un’amicizia. “Il nipote di Wittgenstein” di Thomas Bernhard

di Umberto Vitali

Il nipote di Wittgenstein è il racconto della strana amicizia tra due strani viennesi, lo scrittore Thomas Bernhard e Paul von Wittgenstein,  folle di professione. Paul era il nipote del filosofo Ludwig, e con lo zio aveva in comune sia la personalità stravagante sia – a parere di Bernhard – la propensione alla filosofia; una filosofia, dice l’autore, non scritta, una filosofia che si manifestava nelle azioni e nella condotta di vita. 

Il pensiero di Ludwig von Wittgenstein gli aveva fruttato grandi riconoscimenti e onori in tutta Europa, e il suo unico libro pubblicato in vita gli aveva dato un posto d’onore nella storia della filosofia europea; il pensiero di Paul, più modestamente, gli aveva procurato varie permanenze allo Steinhof, il manicomio di Vienna. È proprio durante uno di questi ricoveri che inizia il racconto: Bernhard, operato per un cancro ai polmoni, si trova in convalescenza nella stessa struttura che ospita l’amico, ma non può visitarlo perché i padiglioni di psichiatria e pneumologia sono divisi. Non potendo incontrare direttamente Paul, Bernhard riflette sulle circostanze che hanno contribuito a formare la loro amicizia.

Thomas Bernhard

Si erano conosciuti in casa di un’amica comune e presto, uniti dalla passione (ma forse è meglio definirla mania) per la musica, erano diventati inseparabili. Non c’era concerto, esecuzione, orchestra o direttore su cui non avessero opinioni, elogi e stroncature crudeli da scambiarsi, e nessuno poteva parlare dell’argomento con più competenza di Paul, che aveva girato il mondo unicamente per visitare i teatri dell’Opera sparsi per il globo. Tuttavia, Paul non era noto tanto per essere un raffinato musicofilo, un autista di auto da corsa, o un abile velista, quanto per aver raggiunto vette di follia a cui nessuno era mai arrivato prima: egli «ha rappresentato di sicuro uno dei vertici nella storia della pazzia» come suo zio nella storia della filosofia, dice Bernhard. 

Ne deriva non tanto che, per l’autore, la filosofia è una forma di follia o viceversa, come potrebbe essere per Platone nel Fedro. Quello che Bernhard piuttosto suggerisce è che siano entrambe frutto di uno stesso principio creativo, che si manifesta in una potente individualità. 

Bernhard ammirava l’amico per la stessa ragione per cui il resto del mondo ne aveva compassione. L’Austria e gli austriaci, visti come i portabandiera di una mediocrità a cui l’autore non ha altro da offrire se non il suo più profondo disprezzo, non erano in grado di capirlo, tantomeno di apprezzarlo. Non a caso, suo zio anni prima si era dovuto rifugiare in Inghilterra,  paese che più di ogni altro ha esaltato la singola personalità come motore della società e della storia, per ricevere il riconoscimento meritato. 

Il complesso ospedaliero “Am Steinhof” in una foto d’epoca 

Ordinare completi nella più costosa sartoria di Vienna per poi negare di averlo fatto, fermare sconosciuti per strada per chiedere loro opinioni sul destino della musica dopo la morte del famoso maestro Klemperer e andare via senza aspettarsi una risposta, percorrere centinaia di chilometri assieme a Bernhard per procurarsi una non indispensabile copia della Neue Zürcher Zeitung… Azioni insensate che però rivelano una personalità profonda, capace di ignorare le convenzioni sociali e la stessa ragionevolezza al solo fine di affermare se stessa. 

Bernhard apprezzava tanto queste caratteristiche dell’amico perché, almeno in parte, erano anche le sue caratteristiche: e, diceva, «per la stessa ragione che ha fatto diventare tisico me lui [Paul] invece è diventato pazzo». Ora, naturalmente non è possibile che la tisi sia indotta da una certa concezione del mondo o da un certo tipo di rapporto con il prossimo, ma quello che conta sottolineare è che per entrambi la malattia, fisica o psichica che fosse, ha avuto una tale importanza da modificare il loro rapporto con il mondo esterno: la prospettiva del malato ha fatto sì che vedessero ciò che era al di fuori di loro in modo diverso dall’uomo comune, e, nel caso di Bernhard, che vedesse in modo diverso anche l’ uomo comune stesso, per il quale le dichiarazioni di disprezzo nella sua opera si sprecano. 

La malattia diventa quindi una sorta di simbolo della condizione di vita dell’artista, il prezzo da pagare per essere diversi dagli altri.

Ma in che cosa consiste, poi, questo “essere diversi”? A una prima lettura di Bernhard, potremmo rispondere che risiede nella misantropia più nera, nella radicale avversione per tutto ciò che è nuovo e apprezzato da molti, in un pessimismo rabbioso e pervasivo. Se la risposta è corretta, se ne dedurrebbe che ogni mezzo espressivo a disposizione dell’artista dovrebbe essere usato per dare voce a questo sentimento: sarebbe uno sforzo ben misero, perché totalmente fine a se stesso. 

Un’altra opera dello scrittore austriaco può forse aiutare a risolvere la questione. In Antichi maestri, il vecchio misantropo Reger passa le giornate al Kunsthistorisches Museum di Vienna, di fronte all’unico dipinto che lo appaga, L’uomo dalla barba bianca di Tintoretto. Niente, fuori dal museo, può suscitare il suo interesse, a parte forse il teatro dell’Opera; non può sopportare la vista e la compagnia delle persone. Quando muore la moglie, però, capisce che «senza gli esseri umani non abbiamo la benché minima possibilità di sopravvivere, nonostante tutti gli spiriti magni e gli Antichi Maestri che ci siamo scelti come compagni di strada, essi non potranno mai sostituire un essere umano», e che in realtà «solo con e tra gli esseri umani ci è data una possibilità di continuare a vivere e di non impazzire». Una dichiarazione sofferta per un misantropo dichiarato, ma che rivela qualcosa sulla “diversità” dell’artista: la consapevolezza di una realtà tragica, in cui ciò che si odia con la massima intensità può essere anche quello che ci salva. 

Tintoretto, “L’uomo dalla barba bianca”

Paul von Wittgenstein è, da questo punto di vista, la summa di un tal modello di uomo, lui che «amava e odiava la natura, e con la stessa passione e spietatezza amava e odiava gli esseri umani». Ma lo è anche Bernhard, il quale dopo una vita passata assieme all’amico che, parole sue, gli ha permesso di sopravvivere, quando lo vede per strada ormai moribondo non ha nemmeno il coraggio di salutarlo, tanto è l’orrore che gli incute quell’uomo ormai già avviato verso la morte.

Un critico statunitense, commentando la scelta dell’editore americano di omettere il sottotitolo Un’amicizia, sostiene che si è trattato di una giusta decisione, perché «there are no friendships built for one». Bernhard, in questo libro, avrebbe in realtà voluto parlare più di sé che dell’amico. 

Penso che sia un giudizio esagerato, ma credo che l’autore abbia dedicato un libro all’amico morto anche per placare i propri sensi di colpa nei suoi confronti, non ultima quella di non aver potuto assistere al suo funerale: in fondo, Bernhard non salvava nemmeno se stesso dal novero di persone che odiava.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Umberto Vitali

Nativo di Bergamo, si diploma nel 2016 presso il liceo classico Paolo Sarpi. All’università decide di continuare gli studi antichistici, e così si laurea in lettere nel 2019 alla Statale di Milano […]

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