29 Aprile 2021

Il linguaggio come convenzione sociale: ricordando Wittgenstein

di Katia Casciana

Uno degli aspetti più interessanti dello studio del pensiero è il suo percorso nei secoli; edifici rigidi e assiomatici vengono distrutti, per poi essere ricostruiti e resi di nuovo macerie.

Un circolo senza fine influenzato dagli eventi del mondo. 

A volte, però, questo avviene nella vita di un singolo pensatore, che, da una rigidità giovanile, riflette così a lungo da avere il coraggio di rivedere le sue stesse tesi. 

È il caso del filosofo viennese Ludwig Wittgenstein. 

Immaginiamo un giovane studente di ingegneria, appassionato di matematica, ma con il pallino della filosofia del linguaggio. La prima parte della sua produzione filosofica, condensata nell’opera Tractatus logico-philosophicus (1922), afferma che il linguaggio non è altro che la rappresentazione dei fatti del mondo. 

Ne deriva che l’unico linguaggio “sensato” è quello scientifico, in quanto gode del principio di verificabilità: è sufficiente confrontare le preposizioni linguistiche di un fatto con lo stato in cui sono nel mondo per stabilire la loro falsità o verità. 

E tutto ciò che non è riscontrabile nel mondo? La metafisica, l’idea di Dio e dell’anima? Wittgenstein non ha dubbi: «Su ciò di cui non si può parlare» – ovvero che non è verificabile – «si deve tacere». 

Gli anni passano, Wittgenstein vive il dolore della guerra e continua la sua attività nel vivace ambiente culturale di Cambridge. 

Protagonista delle sue chiacchierate è Pietro Sraffa, un economista napoletano destinato a diventare tra i più importanti studiosi di economia del secolo scorso. 

Un giorno, sul treno, Sraffa fa un gesto con la mano, familiare agli italiani, indicante qualcosa di simile al disgusto. Quel gesto, come racconterà Wittgenstein ai suoi studenti, lo porterà a riflettere su quel “tacere” posto alla fine della sua prima opera. 

Sarà forse un po’ troppo presuntuoso attribuire alla scienza tutto il senso del mondo?

Per rimediare a ciò, Wittgenstein liberalizza il criterio neopositivistico del significato, che non dipenderà più dal principio di verificabilità, ma dal modo in cui esso è usato in un determinato contesto. 

Il gesto che fece Sraffa ha un significato che non dipende da un fatto nel mondo, ma dall’accordo di tutti gli italiani nell’attribuire un determinato significato a quel movimento della mano. 

Un pensiero, questo, che potrebbe sembrare una sottigliezza, ma che invece è in grado di porre fine al silenzio. 

Si può discutere di tutto quello che è appropriato al contesto, anche di Dio se si è nell’ambito della spiritualità. 

«Il linguaggio» scrive Wittgenstein «vive nelle pluralità degli usi dei parlanti».

I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo

Ludwig Wittgenstein

L’eredità del secondo Wittgenstein sarà immensa, gli studi sul linguaggio si faranno sempre più intensi e interessanti. 

Si arriverà a comprendere che l’origine e il significato dell’umano risiedono nelle parole che utilizziamo, fino ad ipotizzare che la realtà non è altro che il linguaggio stesso. 

Fortunatamente i giochi sono ancora aperti, ma solo grazie a Wittgenstein, che ha avuto il coraggio, comune a pochi, di mettersi in discussione, di contraddirsi, di modificare il suo pensiero.

© Riproduzione riservata.

Katia Casciana


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