11 Settembre 2023

Una transessualizzazione indebita. “La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera” di Alberto Ravasio

di Valentina Savasta

Umorismo, surrealismo – un pizzico di fantastico (dis)funzionale applicato a una storia di (de)formazione –, in un romanzo che è un pastiche kafkiano, pirandelliano, forse addirittura dostoevskiano, con tutto il cinismo dell’underground man di Memorie del sottosuolo. Quella di Alberto Ravasio è una storia tragicomica, frizzante, grottesca, resa in uno stile caustico, dichiaratamente alticcio, una storia sì paradossale ma a suo modo generazionale. Con l’intento provocatorio di chi non le manda a dire.

fonte: Limina

Ma facciamo un passo indietro. Chi è Guglielmo Sputacchiera? Sputacchiera, «parolaio scansafatiche», apri-fila degli incel lagnosi ma innocui, non è che un uomo che cerca di trovare il suo posto nel mondo ma che resta fermo, imbrigliato in una contemporaneità fatta di porno (che rappresenta, di fatto, la sua unica educazione sentimentale) e di mancanza di prospettive; un trentenne caricaturale  – somma di tanti trentenni di oggi – che non riesce a emanciparsi, non riesce a evolversi, mantenuto dai genitori, colto ma inetto, anticonformisticamente conformista, sensibile ma limitato dal suo essere uomo – e proprio per questo incapace di esserlo (almeno nel senso novecentesco del termine!). Lo stereotipo del millennial wannabe deformato dalla società, assuefatto dalla tecnologia, iperconnesso ma profondamente solo, risucchiato dal vuoto cosmico che è l’unica eredità genitoriale che possiamo vantare.   

L’espediente narrativo utilizzato da Ravasio per raccontare questa storia fantozzianamente attuale è la cosiddetta transessualizzazione del protagonista: 

Un mattino d’agosto Guglielmo Sputacchiera si svegliò col muso sprofondato in un bel paio di seni: i suoi. In otto ore di sonno s’era trasformato in donna, creatura a lui sconosciutissima, che in trent’anni di vita non era quasi mai riuscito ad avvicinare, non dico per le acrobazie pubiche, ma anche solo per le informazioni stradali.

Cinquina del Premio POP 2023

L’incipit è un esplicito richiamo al Gregor Samsa di Franz Kafka. E anche qui, come in La metamorfosi, il rapporto del protagonista con il padre – e con questo il tema delle aspettative, dell’incomunicabilità, dell’inconoscibilità e anche della deresponsabilizzazione genitoriale –, rappresentante di quella generazione che «sa vivere, mentre noi viviamo di sapere non retribuito», si rivela centrale. 

Ma Sputacchiera non si risveglia scarafaggio, si risveglia in un corpo che ha sempre desiderato – ma lo desiderava davvero o sentiva di doverlo desiderare in quanto penemunito in perenne confronto freudiano col padre?, sembra suggerirci l’autore tra le righe – di possedere, ma che proprio a causa della sua inettitudine sociale e sessuale non è mai riuscito neppure ad avvicinare: quello di una donna

fonte: Limina

Dopo l’incipit scoppiettante, il romanzo procede per sketch, con un impianto quasi fumettistico, mostrando gli incontri di Guglielmo (adesso Carmela Pene) con personaggi macchiettistici della provincia, di quel paesello stercoso sempre uguale a se stesso che non offre alcuna prospettiva, suscitando in noi risate che rimandano a quel sentimento del contrario di cui parlava Pirandello. Tante le riflessioni sociologiche e politiche che emergono dalle parole di Guglielmo/Carmela, a partire dalla «massificazione dell’esperienza universitaria (…) che non aveva democraticizzato l’istituzione, ma al contrario l’aveva compromessa, trasformandola in un diplomificio» e dallo stallo sociale causato dalla «mancanza di solidarietà intellettuale e di intimità politica», perché «finché continueremo a muoverci in un individualismo straccione, convinti che il successo di poche eccellenze sia una prova sufficiente della democraticità del sistema, non ci assoceremo mai per cambiare le cose», proseguendo con la deriva del capitalismo neoliberista, che ha inglobato perfino il nostro piacere: «All’inizio ti senti onnipotente. Ti sbarazzi del corpo, dei condizionamenti, dei limiti spaziali, economici. Ma dopo un po’ capisci che sei finito in una sorta di circolo capitalistico, come per il fumo o l’alcol. Sei diventato una pedina consumistica e a vincere è sempre il banco. (…) Da bambini ci hanno ingrassati di desideri. E quando poi siamo cresciuti, c’hanno detto che erano finiti i soldi».

La classe, Amirah Suboh; fonte: Illusioni Ritrovate

La transessualizzazione di Sputacchiera – che, come ogni inetto che si rispetti, ha sempre rimandato la vita – potrebbe dunque finalmente rappresentare una rinascita. Ma non prima di un confronto con il padre, simbolo di quel machismo tossico di cui la società ha bisogno di sbarazzarsi, un «ignorante ma indipendente» uomo tutto d’un pezzo, che «poteva solo dargli del denaro, per senso di colpa, ma il denaro, senza visione, senza disegno, non aveva alcun valore, così come il patrimonio, senza presenza e insegnamenti, non sarebbe mai stato davvero paternità». E il viaggio dell’antieroe si concluderà proprio con questo confronto col genitore. L’algoritmo della rete – emblema di una modernità che pare avvicinarci ma ci rende sempre più distanti – combinerà tra i due un incontro tragicomico in cui, ciascuno inconsapevole dell’identità dell’altro, si sarebbe dovuto compiere l’atto che metaforicamente ha perpetrato la generazione dei nostri padri e che è il motore della narrazione: quello di fotterci.

Libri Quodlibet Edizioni; fonte: Critica Letteraria

   

«Per la prima volta nella storia la generazione dei padri mangia completamente il futuro a quella dei figli, la fotte in ogni senso, voi avete tutto e noi non abbiamo niente, siamo una generazione pigiamata e depressa, voi siete i soli a disporre di potere sindacale, elettorale e d’acquisto, ma noi siamo i vostri discendenti e quindi erediteremo l’unica ricchezza reale rimasta, ovvero il risparmio privato, e nell’attesa staremo fermi e buoni, a cuccia. Per fare la rivoluzione, che è diventata ormai una parola ridicola, dovremmo spegnere lo stordimento informatico e terminare il patrimonio, nessuno dovrebbe essere padre di un altro e a quel punto, forse, sarebbe finalmente il caos.»

In questo finale da commedia dell’equivoco, in una chiusa dettata da un tinder incestuoso del paradosso, che rispecchia fin troppo bene una delle porn category più cliccate, Guglielmo si congederà dal padre e dalla propria mobilità immobile con una lettera, che rappresenta la speranza di un riscatto tardivo, di un futuro claudicante di cui abbiamo bisogno di riappropriarci. 

Quella di Alberto Ravasio e del suo Guglielmo Sputacchiera, finalista della XXXIV edizione del Premio Calvino e nella cinquina finalista del Premio Opera Prima, è una comica dichiarazione di inadeguatezza alla vita, una comédie humaine che attraverso il parossismo e il grottesco riesce a tracciare un’autobiografia generazionale, che parla a noi di noi. Pura antropologia letteraria che – diremmo noi millennial – fa ridere ma anche riflettere. Un inno all’autodeterminazione e al fallimento – ma che non sia imposto! 

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Valentina Savasta

Nata a Catania il 6 aprile 1994, si è diplomata nel 2012 presso il Liceo Linguistico G. Lombardo Radice, dove la ricordano ancora come la paladina delle cause perse. Dopo parecchi anni sabbatici di lavoro e autoanalisi, ha finalmente deciso di seguire la sua passione iscrivendosi al corso di laurea triennale in Lettere Moderne all’Università di Catania, dove si è laureata nel giugno 2021.

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