14 Aprile 2021

I sogni tra la realtà e l’idea. “Le città invisibili” di Italo Calvino

di Giada Di Pino

Ci sono alcuni libri, alcune creazioni, alcune forme d’arte di cui è impossibile parlare in maniera esaustiva, poiché è già impossibile attribuirgli alcune precise caratteristiche, alcuni determinati connotati. 

Cos’è esattamente Le città invisibili di Calvino? 

È il libro dell’ineffabile, dei sogni, dell’immaginazione fine a sé stessa. 

La trama che fa da cornice ci mostra un Marco Polo un po’ filosofo e un po’ sognatore che, ritrovatosi alla reggia di Kublai Khan nel suo lungo peregrinare, racconta all’imperatore non i suoi viaggi, ma le meraviglie delle città che ha visitato, le meraviglie delle città dell’impero; un impero che il sovrano non conosce, perché «l’imperatore è colui che è straniero a ciascuno dei suoi sudditi». 

Le 55 città descritte da Marco hanno tutte nomi di donne e si distinguono per determinate accezioni poste dall’autore come titolo di una serie: le città e il desiderio, le città e la memoria, le città e i segni, le città e gli scambi, e così via. Perché questo? Perché «le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure» e all’interno di esse il viaggiatore fa esperienza delle molteplici sfaccettature della vita, dell’anima e delle relazioni, in un continuo scambio tra ciò che c’è all’interno della città e ciò che sta fuori, tra ciò che il viaggiatore vive e ciò che ha vissuto. 

Ogni città che Calvino descrive nel suo libro ci parla di noi, ci mostra un aspetto di noi stessi e della nostra vita. 

È impossibile trarne delle metafore ben esemplificate, perché è talmente forte l’ambiguità della costruzione artistica che il messaggio che ogni città lancia al lettore appartiene solo a lui, parla solo della sua vita, della sua anima, del suo vissuto, ed è diverso da quello di ogni altro lettore. 

E questo può avvenire solo perché la fantasia, l’immaginazione di Calvino è così potente che egli narra «non solo ciò che è ma anche ciò che non è, che potrebbe essere, che è impossibile che sia» (cit. da G. Gramigna, “Viaggio al termine del Novecento”, Mondadori, Milano 2013). 

Sono infatti città “invisibili”, inesistenti, surreali, ma di un surrealismo che pone il lettore davanti all’opporsi tra la realtà e l’idea

Come afferma Pasolini nella sua recensione al libro di Calvino, ogni città che l’autore sogna e descrive nasce da uno «scontro tra un città ideale e una città reale», tra ciò che il mondo è e ciò che vorremmo che sia

Foto di Dacia Di Pino

Queste città allora non sono altro che l’essenza stessa dei nostri sogni: una realtà onirica trascendente presente in ciascuno di noi. Ma è questo scontro tra reale e ideale, questo sogno di bellezza nascosto nella natura stessa dell’uomo che può far nascere nuova vita, che può spingerci a orientarci nel mondo e a far crescere la bellezza attorno a noi, e l’autore ce lo spiega nella chiusa del libro: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce né uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Giada Di Pino

Ha lavorato presso la Leonida Edizioni, ha frequentato il Master in Editoria della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e ha svolto uno stage presso Il Saggiatore. Oggi lavora come editor freelance e come insegnante. 

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