12 Luglio 2023

La vita è/e un gioco. “Senza respiro” di Raffaella Mottana

di Giulia Chines

Ogni morte è una rinascita

Nessuno però racconta del viaggio che sta fra quella morte e la rinascita del sé. Come l’involucro di una vita passata diviene il corpo di una nuova esistenza.

Senza respiro di Raffaella Mottana – vincitore della menzione speciale per la cura editoriale al Premio Opera Prima – lo fa. A modo suo, con un taglio alla Bukowski, ma a tratti più leggero – sembra quasi uno schiaffo che diviene carezza –, ci racconta del percorso che porta una giovane ragazza ad affrontare il lutto della madre. Ci dipinge con una crudezza disarmante i gesti ossessivi da cui la psiche tenta di liberarsi. Le mani che vengono pulite ritualmente, le identità che si mescolano perché i ruoli si confondono.

Mano su mano, dita tra dita, due volte, polpastrelli contro polpastrelli, mano chiusa su pollice destro, mano chiusa su pollice sinistro, polpastrelli che sfregano il palmo, due volte, palmo contro palmo, mano su mano.

Raffaella Mottana

Tutto si ripete come uno schema, mentre la protagonista, Cecilia, sembra dimenarsi al suo interno, merlo fra le fauci di un gatto che gioca. La vita è così: un gioco crudele in cui noi miseri umani ci arrabbiamo contro una divinità più o meno presente, ma sempre ironico. Dio o fato, poco importa. Destino o caso. In questo gioco, quello che l’essere umano cerca è il controllo.

Ed è questo che si riflette in un ulteriore giocare: la pratica BDSM. O dovremmo dire le pratiche, che ci vengono descritte mentre la stessa Cecilia ne viene a conoscenza. Lei, che nella mancanza di respiro – attraverso il cosiddetto breath play – trova il suo bisogno di controllo. Lei che aveva visto sua madre morire, senza quel respiro. Lei che aveva immaginato un ansito fantasma su un corpo morto, ormai ridotto a mera cosa, non più vivo, non più umano, totalmente estraneo e inerte. Lei stessa toglie al proprio sé la sua umanità, alla ricerca del suo essere viva, del suo essere persona. In un finale che – concedetemi questo gioco di parole – ci toglie il fiato, Cecilia ritrova se stessa nell’esperienza che l’ha accompagnata lungo tutto il suo percorso-epifania: la mancanza di quel respiro.

E anche noi ci sentiamo come lei nel corso della lettura: senza fiato, eccitati, tristi, arrabbiati. La crudezza dello stile dell’autrice ci trasmette ogni cosa. Perché non ci sono mezzi termini nella morte, come ci dice la protagonista. Non c’è alcun “venire a mancare”, non c’è una mera assenza, c’è quell’unica parola, con tutto il suo peso e la sua gravità: morta. Sua madre è morta e l’ipocrisia dei vivi fa più male della perdita. Quello che cerchiamo, nell’affrontare la morte, è proprio il suo contrario: la vita. E questa storia ce lo dice con tutte le parole e le scene giuste. Con una prima parte dedicata a ospedali e funerali e una seconda fatta di BDSM e dolore che si mescola a piacere.

Cecilia si libera dall’ipocrisia, dalle menzogne di un mondo fatto di un “tutto va bene” che non è reale. Affronta la sua sofferenza nel modo che meglio si adatta al suo io: il sesso. Ed è buona abitudine dei perbenisti della società ricordarci quanto questo sia male e denoti mancanza di buon senso e decoro. E allora si fottano. Si fotta il perbenismo, perché è questo che ci dice questa storia. Ci ricorda il mondo fatto di vermi e putrefazione, di alcol e dolore, di sesso e vita. Esattamente come una novella Bukowski, l’autrice ci riporta quella verità diretta, grezza, senza fronzoli e imbellettature. 

E non importa se ci perdiamo in quel finto amore fatto di giochi e ruoli, perché a volte non abbiamo bisogno di essere amati, ma di ricordarci di saper amare. E nulla si ama più della vita stessa, con il suo male, con il suo sporco, con il dolore e le ferite, le cicatrici che ci rimangono sulla pelle, ricordo perenne di ciò che è stato, di ciò che abbiamo provato. Ricordarci di amare quel corpo che poi diviene cosa, diviene muto, immobile. Ricordarci che tutto sfuma in un tutt’uno informe e che ciò che rimane siamo solo noi, le nostre scelte, il nostro marcio dentro. Le bugie, i sorrisi finti, le volte in cui abbiamo abbandonato e siamo stati abbandonati.
E forse, chissà, ritroviamo noi stessi proprio nel BDSM, nella mancanza di respiro. Forse è soltanto una meccanica corporea, fluidi che scorrono, cazzi e fiche. Forse è l’essenza della vita: affidare il controllo, perderlo e ritrovarlo, lasciarsi soffocare e poi dire basta, ferire e farsi ferire, sentire un cuore che batte, accettare la propria nudità davanti a tutti – una nudità che è corpo e anima. Abbandonare la maschera della moralità fittizia e dire, parlare, schiettamente pronunciare ogni sillaba e, infine, ritrovarci sporchi di terra, di lacrime e sudore, di tutto ciò che più ci disgusta e, nel buio del mondo, respirare ancora e ricordare che, sì, siamo vivi.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Giulia Chines

Nata a Palermo nel 1994, si diploma al Liceo scientifico Galileo Galilei della propria città. Prende una laurea triennale in Studi filosofici e storici e una magistrale in Scienze filosofiche e storiche all’Università degli Studi di Palermo, approfondendo in particolar modo gli studi antropologici di René Girard rispetto al capro espiatorio e agli stereotipi di persecuzione, oltre che al rapporto violenza-religione.


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