Quanto dice di noi la lingua che parliamo? E come può definire – e distorcere – la percezione che abbiamo di noi stessi e della realtà che ci circonda?
Lingua madre, esordio di Maddalena Fingerle e vincitore di numerosi premi, tra cui il Premio Italo Calvino (2020) e POP (2022), racconta del valore che si può attribuire alla propria lingua e di come le parole siano rilevanti nel plasmare la psiche, sino a spingerla all’apice della follia.
titolo: Lingua madre
autore: Maddalena Fingerle
editore: Italo Svevo
anno: 2021
prezzo: € 17,00
La vicenda si svolge tra le città di Bolzano e Berlino, tra la lingua italiana e quella tedesca. Nel mezzo si pone la ricerca di una propria identità, pulita dalle scorie di un destino che arbitrariamente sceglie quale sarà la lingua che parlerai e che ti legherà agli altri.
Seguiamo così la storia di Paolo e della sua ossessione per le parole sporche attraverso il flusso ininterrotto della sua coscienza, da cui è impossibile non farsi travolgere, con le sillabe che impongono un ritmo serrato alla narrazione, intrise di tracotante audacia; la madre è una stronza che non ha il coraggio di usare la parola negro e tedesco, perché sono offensive e sporche e dunque meglio scegliere delle varianti politicamente corrette.
Ma Paolo non ci sta: a essere sporche non sono le parole in sé, sporco è chi le usa e il modo in cui lo fa, attribuendogli un significato che non gli appartiene.
Se parli tedesco a Bolzano, perché non dovresti sentirti tedesco? E se invece parli italiano, in cosa sei poi così diverso da tutti gli altri italiani? Eppure la differenza c’è, la determina una carta.
Al compimento dei diciotto anni i bolzanini devono dichiarare la propria appartenenza linguistica, perché se vivi in una terra di confine, è possibile che tu debba riconoscere la tua lingua madre con una crocetta a penna e una firma.
Che madre sarebbe questa? È come se dopo anni la tua lingua “biologica” richiedesse il test del DNA per portarti con sé, dopo aver vissuto tutta la vita in un’altra casa, con dei “fratellastri” che si rivelano tali solo nel momento in cui ti ritrovi a fissare un modulo bianco sul tavolo.
Bolzano rappresenta la città delle parole sporche: la madre, la sorella, gli insegnanti del liceo, e nondimeno il padre e la sua tragica fine, inducono Paolo ad abbandonare l’italiano, quella lingua che proprio non riesce a pulire, perché ogni singola parola reca con sé una ferita ancora aperta, e a cercare invece sollievo in una lingua ancora “vergine”: il tedesco.
Che stronzata, il bilinguismo.
Chi parla italiano non necessariamente parla fluentemente anche il tedesco, Paolo questo lo sa bene, perché una volta giunto a Berlino deve apprendere quasi da zero la lingua e i costumi che si porta dietro; e con Paolo anche noi lettori, poiché chi ha scarse conoscenze di tedesco rischia di trovarsi in difficoltà dinnanzi alle parole dal suono duro e aspro, non tradotte in nota, piccoli enigmi che pagina dopo pagina diventano sintagmi brevi sempre più decifrabili: se non hai una grammatica, devi affidarti all’istinto.
Ecco che finalmente la lingua non è più un insieme di dogmi impartiti, cosa è giusto e cosa è sbagliato dire, ma si presenta come un insieme di possibilità con l’unico scopo di favorire la comunicazione. Bisogna riuscire a esprimersi, niente salamelecchi.
A Berlino Paolo trova finalmente il suo “sapone di Marsiglia”: Mira, una giovane ragazza italiana con cui inizia una relazione che darà origine a una serie di eventi per cui entrambi torneranno a Bolzano, a casa della madre di Paolo.
Ma quella per le parole rimane un’ossessione che sembra non trovare mai davvero pace, né negli scantinati berlinesi, né tra le braccia di Mira. E quando la possibilità di essere lui stesso a sporcare le parole altrui si manifesta in carne e ossa, allora accade l’irreparabile: le parole di Paolo vogliono essere così pulite da non poter essere usate. Sono parole che fanno corto circuito e isolano il protagonista, confinandolo in un mondo interiore che, se vuole esistere, deve recidere tutti i legami con ciò che sta fuori. O l’italiano o il tedesco. O sporco o pulito. O le sue parole o quelle degli altri.
In Lingua madre la parola costituisce non solo il nucleo tematico centrale, ma anche la cifra stilistica del romanzo: Fingerle sceglie accuratamente ogni lemma, attribuendogli un significato preciso, con una maestria che le consente anche di costruire anagrammi con i nomi dei personaggi – Paolo Prescher diventa per esempio l’anagramma di “parole sporche” – rendendoli di fatto dei nomi parlanti.
La dimensione linguistica è talmente preponderante sulla realtà oggettiva, che diventa impossibile prendere le distanze dal flusso di coscienza di Paolo: il sé, gli altri e i luoghi non sono dotati tanto di una vera e propria consistenza fisica, quanto piuttosto linguistica, sicché tutto nel romanzo è connotato dall’esperienza del protagonista e restituito nella forma sintattica che più gli pertiene.
Risulta inoltre peculiare il lessico familiare di Paolo: un turpiloquio privo di censura che travolge in particolar modo le figure della madre e della sorella, e che ricorda piacevolmente sotto molti aspetti Il giovane Holden di Salinger.
Lingua madre rappresenta un esordio brillante, in cui i fondamenti della linguistica e del romanzo psicologico si intrecciano in una prosa letteraria e ricercata, rendendolo un libro davvero meritevole di essere letto da nord a sud, da est a ovest, e oltre i confini che la lingua impone.
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titolo: Lingua madre
autore: Maddalena Fingerle
editore: Italo Svevo
anno: 2021
prezzo: € 17,00
Il nostro giudizio
Nata a Venezia il 24 gennaio del 1997, si diploma presso il Liceo Classico Raimondo Franchetti nel 2016, per poi iscriversi a Lettere Moderne all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove si laurea nel 2019 con una tesi dedicata a Elena Ferrante.
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