24 Aprile 2023

L’orrore venuto dal mare. “La maschera di Innsmouth” di Gou Tanabe

di Giulia Chines

«L’urlo del vecchio fu così improvviso e inumano che il sangue mi si gelò nelle vene; per poco non svenni. I suoi occhi fissavano il mare maleodorante alle mie spalle e sembravano sul punto di schizzargli dalle orbite; il suo volto era una maschera di terrore degna di una tragedia greca. Affondò un artiglio ossuto nella mia spalla e non fece un gesto mentre giravo la testa lentamente per vedere cosa lo avesse terrorizzato. […] quando mi voltai verso di lui vidi quel volto pietrificato dalla paura disfarsi in un caos di fremiti e tremor di labbra.»

Fra strutture dalla geometria improbabile e figure partorite dal più profondo orrore umano, Howard Phillips Lovecraft ha influenzato e dato vera forma a un intero filone horror fantascientifico. Con le sue parole è stato in grado di suscitare il più profondo terrore in chi leggeva, lasciando la mente a vagare in un abisso di oscurità e immagini distorte e impossibili. E non è un caso che uno dei temi più ricorrenti sia proprio quello marino, i cui immensi e nascosti fondali sono popolati da creature che potremmo solo definire mostri.

A distanza di più di cento anni da La maschera di Innsmouth (1936), il mangaka Gou Tanabe decide di dare forma fisica agli orrori che abbiamo immaginato. Certo, sono stati fatti numerosi adattamenti delle opere di Lovecraft, ma spesso sentivamo mancare qualcosa. Questo vuoto viene del tutto colmato dall’abilità del fumettista, che riesce con il suo tratto a cogliere il totalmente alieno. Non solo: vediamo perfettamente accostati un tratto semplice e morbido dei personaggi e delle ambientazioni più “umane” a un tratto più sporco e scuro, ma comunque dettagliato e preciso, delle creature e degli ambienti di Innsmouth.

Innsmouth: cittadina dell’universo immaginario di Lovecraft, luogo ormai dimenticato ed evitato da tutti a causa delle leggende che circolano sui suoi abitanti. Si dice che essi abbiano fatto un patto con demoni, o forse che li abbiano evocati, che vi siano culti oscuri in cui gli adepti praticano sacrifici. Tutte storie, per il nostro protagonista, il classico personaggio scettico ma irrimediabilmente curioso. Nel suo viaggio – non a caso – alla ricerca di se stesso, egli incontra invece un culto che deforma chi lo pratica: gli abitanti hanno un aspetto mostruoso e una nota diffidenza verso i forestieri. Un posto inospitale, freddo, fatto di case vuote e abbandonate, allineate ma fatiscenti. Sopra ogni cosa, un luogo dove a dominare la scena è l’insopportabile tanfo di pesce. Emana dagli abitanti, dal mare, dalle case, dai luoghi di culto. Arriva con ogni folata di vento e invade la mente del lettore come quella del protagonista. È in questo ambiente, oscuro e desolato, che il protagonista si muove, sperduto eppure sempre in cammino, sino a trovare una verità che – come in ogni racconto lovecraftiano – distrugge irrimediabilmente la sua mente.

Il bianco e nero domina l’intero fumetto e ci fa entrare più a fondo nell’umore horror – quello stato di ansia e presagio, di paura latente e opprimente – e nella tensione delle singole scene. La trama segue senza nessuna deviazione quella del racconto originale. Unica differenza è la modalità della narrazione: laddove il romanzo del 1936 si strutturava quasi come una memoria, una lettera, che preludeva allo «spaventoso atto» che il protagonista stava per compiere, il fumetto decide di svilupparsi sotto forma di un flashback. L’inizio resta identico, il personaggio nel presente che racconta di doversi preparare per ciò che deve fare e che inizia a raccontare l’inchiesta contro Innsmouth che portò a incendi e arresti e che avvenne sotto la sua spinta. Il protagonista, allo stesso modo, ci dice che ora racconterà cosa ha vissuto perché, anche se ormai tutti hanno dimenticato, lui deve parlare di quello che ha visto per mantenere la sua sanità mentale. Ciò che è avvenuto lo vediamo accadere in prima persona in quel momento, inframmezzato con didascalie che ci ricordano il presagio di ciò che avverrà, la fuga di cui il personaggio parla nel preludio. Questa scelta è perfetta per la forma narrativa del fumetto, in modo quasi ovvio. Non poteva essere altrimenti. Per vivere appieno il dramma di ciò che ha visto, dobbiamo guardarlo tramite i suoi occhi, prima profondamente scettici e poi via via più terrorizzati. I piccoli “spoiler” rispetto al racconto originale, i momenti che nella narrazione potevano essere lasciati sospesi, indecisi, per calcare la mano su quello che è il leitmotiv lovecraftiano – la mente che non è pronta a ricevere e accettare gli orrori, che si dà spiegazioni alternative pur di non vedere –, qui si perdono, certo. Ma non risulta un problema: noi vediamo perché già sappiamo, laddove il protagonista sceglie di non vedere e di far finta di nulla sino al momento della fuga. I tratti strani, curiosi, particolari degli abitanti, noi li vediamo da subito nella loro mostruosità, ma Tanabe riesce, con sapienti angolazioni di disegno, a darci ancora quel senso di non-visto, quell’incognita che nutre la curiosità insieme agli strani racconti e alle reliquie di un metallo simile all’oro. E anche di queste reliquie le immagini forniteci da Tanabe sono splendide, magnificamente orrorifiche, e accompagnano perfettamente la descrizione delle sensazioni del protagonista nel guardarle: mistero, disgusto, orrore e meraviglia.

Insomma, senza fare ulteriori spoiler, l’adattamento di Gou Tanabe è impeccabile, segue i punti della trama in perfetta linea e ricorda costantemente l’originale, ma dando forma pregnante e incisiva alle descrizioni dello scrittore novecentesco. Una versione per chi vuole rivivere quella familiare sensazione che ti lascia i sensi storditi e la mente annebbiata in preda al terrore, immersa nelle profondità del mare dove creature mastodontiche, anfibie e voraci, sapienti e sinuose, si snodano in labirinti ed edifici dalla geometria non euclidea. Un fumetto per chi vuole vedere con i propri occhi, veramente, cosa si cela nell’abisso, attendendo che quell’abisso lo guardi a sua volta.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Giulia Chines

Nata a Palermo nel 1994, si diploma al Liceo scientifico Galileo Galilei della propria città. Prende una laurea triennale in Studi filosofici e storici e una magistrale in Scienze filosofiche e storiche all’Università degli Studi di Palermo, approfondendo in particolar modo gli studi antropologici di René Girard rispetto al capro espiatorio e agli stereotipi di persecuzione, oltre che al rapporto violenza-religione.


Potrebbe interessarti: