5 Settembre 2022

L’alchimista del potere di Putin. Su “Il mago del Cremlino” di Giuliano da Empoli

di Umberto Vitali

La Russia contemporanea e una grande storia d’amore; l’ascesa irresistibile di un autore di teatro d’avanguardia a consigliere dello Zar, sullo sfondo delle vicende europee e mondiali degli ultimi trent’anni; e poi, il futuro di un Occidente tecnocratico in cui sembrano compiersi le profezie distopiche di un oscuro scrittore sovietico di inizio Novecento. Di tutto questo, amalgamato in un’avvincente narrazione, parla Giuliano da Empoli, alla sua prima prova come romanziere, in Il mago del Cremlino.

Il “mago” del romanzo è Vadim Baranov, alias, nella realtà, Vladislav Surkov, per decenni uno dei consiglieri più stretti di Putin, prima di finire in disgrazia all’inizio della guerra in Ucraina; personaggio quanto mai lontano dalla classica, stereotipata immagine del burocrate di corte, attorno a Surkov nel corso degli anni si è andato creando un mito legato alla sua duplice natura di uomo di teatro e di politica, di “burattinaio” nascosto della Russia moderna. Soprannome più che meritato, visto che è stato lui stesso a tracciare un paragone tra politica e commedia dell’arte, entrambe, a suo dire, dirette da un regista secondo una trama decisa in anticipo. L’indagine sulla figura di Surkov chiude quella sugli spin doctor dei populismi che da Empoli aveva iniziato in Gli ingegneri del caos (Marsilio 2019).

Da più parti è stato sottolineato che questo è il romanzo necessario per capire la Russia contemporanea e quello che ha portato alla guerra in Ucraina. È certamente vero. Ma sarebbe riduttivo definirlo semplicemente un romanzo sulla Russia, perché in realtà l’oggetto del libro è assai più ampio: si tratta di un’indagine sulla natura del potere, del potere autentico, che si basa sulla capacità di incarnare i desideri e le inclinazioni più nascoste dei governati, e la Russia, date le condizioni in cui vi si esercita il potere, è un osservatorio privilegiato. Come spiega Baranov/Surkov nella lunga notte in cui ripercorre le tappe della propria ascesa al potere, la politica fatta dai personaggi scialbi che guardano il mondo attraverso grafici e statistiche, dai “ragionieri”, è estranea alla Russia. Sono i siloviki, gli uomini della forza, a esserne l’anima, perché hanno compreso i veri bisogni del popolo: sicurezza in patria, essere guardati con rispetto misto a timore dal resto del mondo, un capo capace di schiacciare, col suo pugno di ferro, i nemici del suo popolo, sia interni sia esterni. 

Baranov non è certo un “uomo della forza”. È raffinato, sensibile e colto, ha studiato arte drammatica. La sua forza consiste nel saper creare la realtà, nel fare della vita reale il palco dove i suoi attori recitano secondo il suo copione, e per questo è molto più che un semplice consigliere politico:  si potrebbe dire che inizi la sua carriera con l’essere un pubblicitario, che offre agli elettori il prodotto-Putin e finisca con il diventare un drammaturgo del potere, che crea e soddisfa le ambizioni dell’intero popolo russo. La politica in sé, intesa come perseguimento di obiettivi concreti e specifici, gli interessa in fondo poco: nel romanzo gli eventi che hanno impresso svolte decisive alla Russia di oggi compaiono, certo, ma sono viste non tanto con l’occhio dello storico, quanto appunto con quello dell’autore che costruisce la sua opera scena dopo scena per arrivare al finale cha ha già fissato. La politica appartiene a Putin: è lui a finire la guerra in Cecenia, ad arrestare Chodorkovskij, a iniziare la guerra nel Donbass, ma è Baranov che, grazie alla propaganda, fa apparire tutti questi eventi come necessari, sulla scia della grande storia russa.

Eppure Baranov non è malvagio: traccia una strada che porta alla guerra e alla morte, ma il lettore difficilmente prova antipatia per lui, perché è capace di creare, grazie all’arte, un mondo più vivido, affascinante e imprevedibile di quello reale (e, dice lui, di quello occidentale, oppresso da una meccanicità e ripetitività che soffocano i singoli individui). Il suo grande difetto, semmai, è quello di essere in fondo un intellettuale annoiato. Non è guidato da sete di potere, dal desiderio di eccessi che anima i cortigiani dello Zar, ma da semplice curiosità intellettuale, dalla voglia di mettersi alla prova come demiurgo della realtà. Così facendo, però, si accorge troppo tardi che la sua arte si nutre di cose reali, di persone: quello che ha costruito in trent’anni di potere è certo affascinante, ma si regge pur sempre sull’oppressione e la sofferenza; un mondo incantato ma falso. L’alternativa russa al grigiore e alla mancanza di grandezza occidentali sostanzialmente fallisce, dando luogo a un’aporia tragica.

La vicenda di Baranov è raccontata da lui stesso al narratore principale, che è l’alter ego del nostro da Empoli, nel corso di una lunga notte, come se fosse una Sheherazade russa. Attorno al lettore prendono così vita, progressivamente, la Mosca degli anni ’90, il fasto del Cremlino, i monti della Cecenia: la narrazione dell’autore permette di far toccare con mano luoghi, personaggi e atmosfere grazie ai numerosi dettagli che dissemina nel racconto. Tutto viene citato a proposito, dalle vie di Mosca ai quartieri di Stoccolma, dall’arredamento di cattivo gusto di un oligarca ai tetri corridoi della Lubjanka, per finire con i piatti che si consumano nei ristoranti moscoviti. Tutto questo, e la grande documentazione che sta alla base del romanzo, fanno sì che il lettore riporti un’impressione vivida di quello che legge. 

La psicologia dei personaggi è resa accuratamente, anche dal punto di vista del linguaggio: ciascuno parla come ci si aspetterebbe dal modo in cui è stato presentato, e così il raffinato Baranov procede per citazioni letterarie, similitudini funamboliche e con inserti in francese mal tollerati dal suo capo; Putin invece è diretto, parla con frasi secche, assertive, spesso usando la retorica di stampo bellico che in questi mesi abbiamo imparato a conoscere. E non è solo la lingua dei personaggi a dire qualcosa di loro: spesso, nel romanzo, si capisce molto del loro carattere grazie agli oggetti di cui si circondano. La libreria in noce di Baranov e il divanetto «che non sarebbe stato fuori luogo nelle sala d’attesa di un personaggio di Guerra e Pace», l’estroso appartamento di Berezovskij, l’ufficio «da caposervizio del ministero delle poste» di Putin nella sede dell’FSB ci introducono i loro possessori ancora prima che questi aprano bocca. Tutto questo va a rafforzare una narrazione già vivace, che fa leva su piacevoli trovate narrative per catturare l’attenzione del lettore: la “riscoperta” di un autore sovietico che dà il via alla vicenda (che sostituisce il classico ritrovamento di un manoscritto), una storia d’amore con una donna altera e affascinante, un quasi rapimento in una metropoli brutale e lontana…

Notevole è anche l’uso di immagini usate per condensare un concetto particolare e fissarlo nella mente del lettore. La più forte è probabilmente quella che si serve di Konni, l’affettuosa labrador di Putin che il suo padrone lasciava libera di fronte ad Angela Merkel, notoriamente terrorizzata dai cani. Nella narrazione che ne fa da Empoli, Konni assurge a simbolo della politica estera russa, anzi diventa la politica estera russa: istintiva, imprevedibile, animalesca appunto. 

Il tutto è accompagnato da uno stile raffinato, che alterna citazioni colte (la cui fonte è scrupolosamente indicata in un’appendice) a similitudini spericolate («nuda e smarrita come un aborigeno australiano che cerca di attraversare la strada»), e che indulge piacevolmente a un’aneddotica, inventata e non, sul passato imperiale e sovietico. In sintesi, si potrebbe dire che il fascino di questo romanzo deriva dal fatto che il suo autore ha saputo fondere i toni di una spy story alla Le Carré ₋ il pessimismo con cui si guarda a un potere cupo e infido, ma anche personaggi come Ksenia, la feroce e affascinante donna amata da Baranov, sembrano usciti da un romanzo dello scrittore inglese ₋ e riflessioni lucide e originali sulla natura del potere, senza tuttavia indulgere a facili prese di posizione, a un virtuosismo dello stile che rivela la familiarità dell’autore con la grande letteratura.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Umberto Vitali

Nativo di Bergamo, si diploma nel 2016 presso il liceo classico Paolo Sarpi. All’università decide di continuare gli studi antichistici, e così si laurea in lettere nel 2019 alla Statale di Milano […]

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