25 Gennaio 2023

Quel labile confine tra la finzione e la realtà. “Applausi a scena vuota” di David Grossman

di Adele Licciardi

Se dopo quarant’anni una conoscenza di vecchia data di cui non ricordavi più quasi l’esistenza ti chiamasse per chiederti di guardare un suo spettacolo e scrivere qualche riga su quello che hai visto, accetteresti?

Questa è la scintilla da cui si dipana la trama che compone Applausi a scena vuota di David Grossman, pubblicato nel 2014 per Mondadori, edizione Oscar 451

È una sera come tante e Dova’le, cabarettista, si esibisce a Netanya davanti a un pubblico molto variegato. Il comico inizia la sua performance come da copione e, tra barzellette, aneddoti divertenti e osceni e black humor, lo spettacolo ha inizio. Tra gli spettatori c’è anche l’amico Avishai Lazar, giudice ormai in pensione, che accetta di assistere all’esibizione pur non capendo il motivo di una tale richiesta. Dova’le desidera soltanto che qualcuno lo osservi e scriva qualche riga su quello che vede, su quello che il pubblico percepisce. Solo qualche riga, come un giudizio o una condanna per i propri peccati.

Capita, alle volte, di ritrovarsi già grandi e sentire il bisogno impellente che qualcuno ci giudichi e ci dica onestamente chi siamo e quanto valiamo ancora.

Capita, alle volte, che il nocciolo duro della nostra persona si perda sotto gli strati di quello che dovremmo essere, di quello che siamo diventati, e la domanda che rimbalza fuori con violenza è: «Chi siamo davanti gli occhi di uno sconosciuto?».

Capita, alle volte, infine, di percepire che qualcosa è cambiato ma di non comprendere appieno la portata di tale cambiamento: «Sono passati tanti anni. Io non sono più io e tu non sei più tu».

Questo è quello che accade a Dova’le. Questi sono i motivi che lo spingono a formulare quella richiesta apparentemente strana.

Lo spettacolo di Dova’le, tra rimandi storici relativi alla shoah e alla guerra e aneddoti personali, si dipana tra risate piene e composte. Le sue battute, le sue irriverenze, il suo modo burlesco di stare su un palco divertono il pubblico. 

Ma lo spettacolo, a un certo punto, smette di essere finzione quando Dova’le trasforma i suoi aneddoti in un monologo intimo. Tra barzellette lanciate per smorzare i toni e atti violenti che preannunciano qualcosa di tragico, il cabarettista si lascia andare a una babilonia di ricordi che riguardano il padre e la madre, dolce ma anche duro il primo, delicata e fragile la seconda. 

Il pubblico e, insieme a esso, il lettore gradualmente intuiscono che la storia che prende forma sul palco ha lo scopo di raccontare un giorno ben preciso, quello in cui Dova’le scopre di essere rimasto orfano; il giorno in cui la sua infanzia esplode improvvisamente, come una bolla di sapone. Ma orfano di chi? Chi è morto, mamma o papà? Per tutto il viaggio, prima di raggiungere il luogo in cui si sarebbe tenuto il funerale, Dova’le non lo sa. L’uomo che si esibisce su un palco, ormai cinquantenne, e insieme a lui il Dova’le bambino che sembra accompagnarlo, continuano a domandarselo con commozione e cinismo insieme. 

Tuttavia, gli interrogativi che sembrano sottendere ai suoi sproloqui sono anche quelli che danno avvio al romanzo: sono colpevole? Ho meritato l’amore dei miei genitori? O semplicemente, come direbbe Pessoa, basta soltanto esistere per essere perfetti? Agli spettatori resta solo una scelta: lasciarsi penetrare dalle parole di Dova’le e immergersi con lui in un percorso catartico o lasciare vuote le sedie e andare via.

Attraverso le parole di Dova’le, Grossman mostra su un palco la vita di un uomo, trasforma la finzione in realtà, e lo stile magistrale con cui lo fa non permette ai punti di sutura nel passaggio tra queste due parti di essere visibili.

L’intera performance narrata in Applausi a scena vuota è raccontata unicamente dal punto di vista del giudice Avishai Lazar, che si ritrova, come detto prima, a osservare l’esibizione dell’amico. 

Attraverso i suoi occhi seguiamo i movimenti del cabarettista, i disaccordi o l’approvazione del pubblico; conosciamo meglio la storia di Dova’le, e anche quella dello stesso giudice, vedovo ma ancora terribilmente legato al grande amore della sua vita.

Attraverso i suoi occhi lo spettacolo diventa una catarsi tragicomica in cui il pubblico non è l’unico a lasciarsi coinvolgere dalle parole del comico, ma lo stesso Dova’le appare rannicchiato totalmente in sé stesso, nel tentativo di venire a capo del giorno in cui tutto cambiò.

Uno spettacolo, dunque, che riprende la funzione di turbamento prima e pacificazione poi tipica delle tragedie greche, ma il cui movimento è tutt’altro che unidirezionale: dal comico al pubblico e, forse soprattutto, dal pubblico al comico. Dova’le si pone sotto i riflettori senza veli, analizza la sua storia per sé stesso ancora prima che per gli altri, arrivando all’accettazione della crisi e, forse, al suo superamento

Lo stile con cui Grossman dà vita a tutto questo è impeccabile. I dialoghi non sono segnalati dalla consueta punteggiatura, il discorso è un fiume incessante di parole, argomenti, aneddoti, che le orecchie e gli occhi di Avishai Lazar riportano. Quasi un flusso di coscienza. Tuttavia, sin da subito, non si fa alcuna fatica a distinguere le parti in cui è Dova’le a parlare in prima persona da quelle che descrivono le reazioni del pubblico.

Grossman ha la capacità di farci visualizzare in modo lucido l’artista sul palco: tra il pubblico c’è anche il lettore che lo vede muoversi, affannarsi, ridere, rabbuiarsi. E anche noi, insieme a tutti questi personaggi, siamo portati a domandarci: chi siamo davanti a uno sconosciuto? Quanto contiamo ancora?

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Adele Licciardi

Nata a Ragusa il 26 maggio 1991, ha frequentato il liceo classico Secusio Bonaventura di Caltagirone. Dopo il diploma continua gli studi umanistici iscrivendosi alla triennale in Lettere moderne presso l’università di Catania e conclude il suo percorso universitario con la laurea magistrale in Filologia moderna nel 2022.

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