12 Novembre 2022

Jean-Luc allo specchio. “Il disprezzo”, regia di Jean-Luc Godard

di Serena Costa

Ho tinto le mie labbra di vino rosso con pennellate distratte, fra una parola sussurrata e una risata sguaiata, fin troppo sonora. Non indosso null’altro. Distesa sul tuo letto, poggio sul cuscino la testa piena di capelli spettinati dal vento di mare, lontano ma più vicino del solito: il suo odore è una visione del futuro che ci attende. Sento il sale in bocca, mi lecco le labbra, ti bacio.

Mi sono vestita di fiori di strada, strappati al bordo di un marciapiede, ad un’aiuola tuffata fuori dal suo confine, con le braccia tese a sfiorarmi, a pizzicarmi.

Mi sono vestita di fari in città, la mia pelle ha assorbito le luci al neon delle insegne e ora le riflette su questa stanza spoglia, sul tuo viso, sui tuoi occhi torbidi, morenti per il desiderio primordiale che ti trasmette il mio battito impazzito, la mia pelle morbida e calda, il mio respiro che canticchia le mie voglie. 

Le luci cambiano gradualmente, seguono le tonalità delle tue emozioni che si mischiano alle mie. Distesa, ti guardo impertinente, fingendo che le tue dita che percorrono il mio seno mi siano indifferenti. Ti indico un fotogramma del mio corpo in offerta, poi un altro e un altro ancora, fino a scomporlo in ogni sua parte. Così scomposta, rimetto insieme i pezzi quando alla domanda “Ti piace?” rispondi sempre e solo “Sì”. 

Con costruita innocenza, mi copro gli occhi con le mani; con spontanea innocenza, mi scappa una risata di un ritrovato imbarazzo.

“Sei sfuggente… Tutte le donne lo sono, ma tu più delle altre.” 

Ti guardo con diffidenza. Quanto valore hanno le parole dopo aver fatto l’amore? Adesso sento di amarti, la mia voce, fuori dal mio controllo, te lo dice forse per l’ultima volta. 

“Sono come tu mi vuoi…” Se fossi bionda sarei la nemesi del tuo passato, se fossi rasata farei meglio l’amore. Potresti chiamarmi con un altro nome e comprarmi una parrucca, e io potrei essere un’altra donna che ti ama. 

Vedi, questo corpo risponde alle tue mani, tieni al guinzaglio l’anima irrequieta, la strozzi, ma ha ancora una voce potente: la mia. 

L’amore non è mai abbastanza, e io quanto resisterò?

Nel 1954, Bompiani pubblicò uno dei più conosciuti romanzi di Alberto Moravia, Il disprezzo, ispirato alle vicende sentimentali di Vitaliano Brancati e della sua giovane moglie, Anna Proclemer. 

Quando, circa dieci anni dopo, Jean-Luc Godard decide di trasporre il romanzo in film, sa che per prima cosa deve mettersi davanti a uno specchio e osservare il proprio animo. 

Nello scrivere la sceneggiatura si trova a sviscerare il suo rapporto con il cinema, cruccio 

costante della sua sperimentazione e della sua teorizzazione, che nella pellicola viene messa in pratica. La Nouvelle vague è un’etichetta che viene affibbiata a lui e a pochi altri: François Truffaut, Eric Rohmer, Jacques Rivette. Gli stessi che, prima di diventare i cineasti che negli anni Sessanta del secolo scorso hanno dato una nuova visione del cinema, erano conosciuti come spietati critici che, nella loro rivista Cahiers du cinéma, si concentravano su ragioni estetiche e morali. 

Tutti loro sguazzavano nella propria originalità con un’alacrità e una velocità allora sconosciute al cinema, fra cura tecnica e una spontaneità quasi dilettantistica, con l’obiettivo di riprodurre l’immediatezza del reale. È l’estetica che amoreggia con i temi politici e sociali più delicati, movimenti di camera disturbanti, tra corse, balletti scoordinati e canovacci di dialoghi improvvisati.

Con Le mépris, Godard si trova in primis ad affrontare un braccio di ferro con il produttore, Carlo Ponti, che gli ha commissionato la trasposizione del romanzo e messo a disposizione una quantità di denaro che il regista non si era mai trovato a gestire. Riflesso di questa lotta è il dissidio affrontato nel film, che si focalizza sui temi che il cinema, secondo il regista, dovrebbe trattare: su quanto debbano essere riflessi della sfera più intima dell’uomo o debbano al contrario avere un afflato universale. 

È l’abisso che divide la privata apocalisse emotiva che precede una separazione – con i suoi fraintendimenti, le sue urla e i silenzi ancor più assordanti – da una filosofica dissertazione sul rapporto fra l’uomo e la natura

È l’esaltazione delle virtù umane impersonate dall’eroe che, per antonomasia, rappresenta la ricerca della conoscenza, oltre ogni limite posto dal divino: Ulisse, e chi come lui riesce a sentire il canto delle Sirene rimanendo illeso, chi resta impassibile davanti alle vicende sentimentali che invadono il proprio spazio uditivo. 

È  Fritz Lang, con il suo portamento composto, con la gaiezza che emana la sua pace interiore a farsi portavoce di questa visione. 

L’approccio del vegliardo regista tedesco risulta vincente su quella psicoanalitica di Paolo Javal, protagonista del film di Godard e alter ego del regista.

L’altro tema che rimescola le viscere di Godard ancora davanti al suo specchio è il rapporto con la moglie Anna Karina, di cui può vedere il riflesso alle proprie spalle, e di cui annota le parolacce, le urla, le battute sarcastiche, la spontanea sensualità di ogni gesto, la fierezza, il rifiuto. 

A interpretarla, la diva del momento, Brigitte Bardot. Poco risente del suo fascino Jean-Luc, e lei ricambia distrattamente la sua indifferenza, interessata più che altro a imprimere la sua immagine iconica, e commerciale nel cinema d’autore. 

Interpretando Emilia, la moglie di Paolo (nella pellicola, l’attore Michel Piccoli), si ritrova a mettere in scena una vera e propria tratta del suo corpo. 

Prima è vittima degli infimi interessi del marito, che la sfrutta per attrarre un importante produttore americano, mostrando poi tutto il suo scostante senso del possesso; in seguito, decidendo di mostrare tutta la sua repulsione per l’uomo che aveva amato, ferisce lui e sé stessa concedendosi proprio a quell’altro a cui il marito l’aveva “offerta”.

Il contrasto tra immagini nitide, di statue greche contro un cielo terso, di una natura che invita a immergersi fra le immense braccia del mare e degli alberi secolari e rigogliosi è un dramma interiore che squarcia lo schermo, come una tela di Fontana

Il senso del divino si arresta davanti al paesaggio di un corpo nudo, il corpo di una donna di cui sembra di sentire l’odore pungente.

Per poter vivere un’esperienza di godimento totale del film, è necessario fruire de Il disprezzo in lingua originale, preferibilmente restaurato dalla Cineteca di Bologna. 

Purtroppo, bisogna segnalare come il risultato del braccio di ferro tra Godard e Ponti sia la versione italiana, disconosciuta dall’autore, che, fra tagli consistenti, censure e la sostituzione delle musiche di Delerue con quelle vacanziere di Piero Piccioni, a nostro avviso, ha deturpato la versione originaria. 

Ho gli occhi ancora blu di un mare profondo, verdi come le pareti bruciate dal sole del Mediterraneo. Il bianco mi acceca, il rosso mi stordisce… sembra che questa villeggiatura fra Capri e Sperlonga debba infondermi pace, ma sento la guerra. 

Si svolge davanti a me con il ritmo malinconico, senza fine e drammaticamente placido delle musiche di Charles Delerue…

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Serena Costa

Nata ad Avola il 3 settembre 1994 si è diplomata al liceo scientifico Ettore Majorana nel 2013. Si è iscritta in giurisprudenza e ha studiato per tre anni con abnegazione e ottimi risultati prima di affrontare una crisi definibile identitaria che l’ha riportata alla passione più profonda che ritiene coincidere con la sua natura: la letteratura.

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