19 Novembre 2022

Nel dolore cerca la felicità. Oppure no. “Dio non parla svedese”, spettacolo teatrale per la regia di Ludovico Budini

di Serena Costa
Scritto e interpretato da Diego Frisina

In quale stato deve trovarsi il mio corpo, a quale velocità deve scorrere il mio sangue, quanto le mie mani devono tremare e la mia voce essere rauca e strozzata, il fiato tagliato dai denti, per raccontare l’atterraggio? O forse, deve avermi raggiunto l’assoluto sentimento del nulla, l’apatia, la rassegnazione. 

Non riesco a deglutire. Sento la testa roteare dolcemente, gira su se stessa e non sono io a guidarne il movimento. Mi lascio andare piacevolmente, come se accadesse in sogno, ma poi, repentina, la ragione mi tira e strappa i capelli. Spalanco gli occhi, urlo: “Fermatemi la testa, fermatemi la testa!”. 

Sento un palmo caldo e fermo sotto il mento, uno sulla fronte, uno per ogni guancia. 

Sento ancora lo scricchiolio dei muscoli del collo che si oppongono, le dolci mani amiche ora umide delle mie lacrime calde. 

Dentro un ricordo innocente, l’inizio del declino. Lo cerco e lo ritrovo nella memoria di un’infanzia che credevo felice… ma la consapevolezza giunge senza fretta dopo la prima crisi, poi la seconda, la terza, l’ennesima, il crollo, le fratture che aprono voragini, il punto di non ritorno. 

E tu? Sei più tornato? Hai idea di cosa io stia parlando? L’hai sbattuta, la testa, fino a farla sanguinare, la tua o quella di qualcun altro? La mia voce rimbomba in questo spazio vuoto, mi rimbalza addosso costringendomi a indietreggiare. 

Il nero di queste pareti e del pavimento violenta i miei occhi. 

Si è svolto  a Catania dal 10 al 30 ottobre il Catania off Fringe Festival, un evento che si è appropriato per tre settimane, dal giovedì alla domenica, di vari teatri (o facenti funzione) della città: teatro Stabile, teatro Vitaliano Brancati, Villa Bellini, Mono, Palazzo della cultura, Zo, Piccolo teatro della città, CUT centro universitario teatrale, ecc. Un numero incredibile di spettacoli, tre per ogni luogo adibito, in ogni giornata prevista.

Sono andata anch’io, giovedì 20 ottobre ho visto Dio non parla svedese al centro universitario teatrale. Aspettavo un’amica e ho salito delle scale nere. 

Ho incrociato nella sala completamente vuota un ragazzo completamente vestito di nero che timidamente mi ha salutata. 

Mi sono seduta davanti a un palco nudo. Le forme spigolose della bassa piattaforma e di un alto sgabello, le onde composte di una tenda a circondarlo. 

Tutto rigorosamente nero. Come ciò che non si vede, perché non si può, perché non si vuole, come il luogo dove si nasconde ciò che si vorrebbe reprimere o sopprimere, come un occhio dopo un pugno ben assestato, come ciò che non si conosce. Una notte senza luna.

La mia amica è venuta a sedersi al mio fianco, qualcun altro ha preso posto. Eravamo pochi e in pochi ci si osserva meglio. Guardiamo il ragazzo timido al mixer davanti al palco, copre il volto con le mani, si fa coraggio, si concentra. Buio in sala.

Diego Frisina entra in scena chiamando disperatamente la madre, si getta in terra sopraffatto dal rumore assordante del suo cervello che non riesce a trovare la frequenza radio. Poi il silenzio. Ed ecco, una melodia dolcissima, dimenticata. 

Per sessantacinque minuti ci trattiene nel suo buio, con un delirio fin troppo lucido, fin troppo disincantato, sprezzo del mondo e dei suoi simili, di un Dio e di un amore in cui il suo personaggio non crede e non capisce proprio come qualcun altro possa crederci. Certamente per stoltezza.

Diego è da solo su un palco che non conosce, uno spazio evidentemente scomodo e inospitale. Sbatte i pugni, scalcia, sale e scende di continuo dal suo sgabello, ci dà le spalle. Cammina scrollando tutto il corpo in maniera scomposta, scoordinato balla la danza iniziatica della vita, che si conclude sul precipizio del nulla. Ha bisogno di urlare e la sua catarsi è anche la nostra, quella di chi guarda e magari rifiuta di mandare a fanculo Shakespeare, come lui ci invita a fare. È un torrente impetuoso di parole, che trascina via tutte le convenzioni sociali, i dogmi della cultura occidentale e cristiana. 

A luci fredde si susseguono luci calde e la musica accarezza, o fa muovere a ritmo, un leitmotiv: «Perché secondo lei essere speciale è più importante di essere felice?».

Mi chiedo se veramente è nell’infelicità che possa risiedere il genio e l’originalità. Se sia nell’essere sempre controcorrente, e se l’essere controcorrente schematizzato in singoli comportamenti non possa, a sua volta, essere stereotipo fine a sé stesso. 

Lo sconosciuto sul palco, che per più di un’ora mi ha parlato, aveva trovato una forma di libertà paradossalmente data dalla vincolante condanna a morte di una malattia neurodegenerativa. Il suo «faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai» è il viscerale nichilismo che muove il suo corpo indomito, che anela con cervellotici ragionamenti solo e soltanto all’autodistruzione.

Il personaggio ha una mente brillante. Capita a volte che sia ridondante o che le sue affermazioni siano banali, perché capita a tutti di essere ridondanti e banali nel momento di maggiore sofferenza. Chi ha vissuto un dolore profondo, prolungato, trova familiarità con la rabbia e il sarcasmo del monologo e rimane immobile a fare i conti col suo peso sul petto. Un ricordo, un presagio, una premonizione

Ho preso il peso che gravava sul mio petto, l’ho portato a casa e l’ho poggiato sul tavolo al mio fianco. 

Ho versato il vino in due bicchieri e abbiamo brindato a Ivan Karamazov: «Conoscerai un grande dolore e nel dolore sarai felice. Eccoti il ​​mio insegnamento: nel dolore cerca la felicità».

Nella solitudine assoluta di questo luogo dove mi ha condotto l’ultima insopportabile sofferenza ho trovato la libertà. 

Allora ti parlo, vi parlo, chiunque voi siate, massa indistinta e addomesticata, voi che a testa bassa inseguite la felicità del banale, quella piena di certezze, e io, con la pistola puntata al petto da chi mi ha voluto al mondo, rido di voi. 

Lo so, lo so, lo so, sono giovane e bello come tutti gli eroi, come tutti gli eroi sono destinato a morire giovane e per questo pregate il Dio padre di un mondo bastardo. Lo stesso che ci ingegnamo ogni giorno a condurre al collasso, ma di cui credete di intuire il senso ultimo, il suo, il vostro e anche il mio. Vi fate confortare dall’idea di una ricompensa dopo la morte, se il profitto in questa vita languisce e scarseggia. 

Vi sto guardando negli occhi che scintillano dietro la coltre di questa notte in cui mi trovo. Vi vedo mentre pregate per me.«Povero piccolo disgraziato, la malattia non gli fa sfiorare la vita, gli rende estraneo l’amore.» Ma il mio corpo, mio malgrado, si muove in una danza che voi, purtroppo e per fortuna, non potreste mai replicare. A stento vi arriva il sussurro della musica che mi possiede. Lo avvertite come si sospetta il sospiro del mare attraverso una conchiglia.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Serena Costa

Nata ad Avola il 3 settembre 1994 si è diplomata al liceo scientifico Ettore Majorana nel 2013. Si è iscritta in giurisprudenza e ha studiato per tre anni con abnegazione e ottimi risultati prima di affrontare una crisi definibile identitaria che l’ha riportata alla passione più profonda che ritiene coincidere con la sua natura: la letteratura.

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