1 Luglio 2023

Uno strappo nel cielo di carta: “Il viaggio”, di Nicola Costa

di Elisabetta Siotto

24 giugno 2023

INTERNO ZŌ CENTRO CULTURE CONTEMPORANEE – NOTTE

Il prologo alla messinscena viene riprodotto a scatti da una voce robotica fuoricampo, volutamente fastidiosa e dissonante, che impedisce all’ipnosi del buio di prendere il sopravvento sugli spettatori. Racconta il senso della pièce e l’intento del suo sceneggiatore e regista, Nicola Costa: quello di risvegliare una coscienza collettiva sopita, arresa, semanticamente abituata alla depersonalizzazione di un intero gruppo di esseri umani, i migranti. È dunque la storia di 193 ad aprire le danze, una persona forse ammazzata dal caporalato, presunta suicida, non si sa, non si indaga troppo, perché 193 è solo un numero. Qualcuno che non ha identità di genere, nome, volto. È solo un migrante morto. Uno in più la cui storia è metonimia di una condizione che non stona più nella mente occidentale, la cui tragedia scivola rapida dalla memoria.

Questo non è uno spettacolo semplice, fatto per raccogliere applausi facili e automatici dalla folla. Lo dice la voce, ma lo spiega anche l’ambientazione in cui spettatori e attori sono calati. La scenografia è pressoché inesistente, il palco, inusualmente in basso rispetto alla platea, è vuoto, fatta eccezione per alcuni borsoni posati sul fondale: racchiudono i piccoli dettagli necessari per le modifiche di costume, che sfileranno visibili davanti agli occhi degli spettatori, annunciando in maniera concettuale, simbolica, un cambiamento nell’ambientazione. Non ci sono barche nel raccontare il viaggio dei migranti, non ci sono remi. Solo corpi rannicchiati e l’immaginazione liquida del pubblico, che da solo ricostruisce i tasselli dei luoghi rievocati dalle voci e dalla prossemica dei teatranti.

Tutto, in questa pièce, è incentrato sul tema, senza dispersioni. Le parole e i gesti non vengono disturbati e distorti da elementi visivi lontani dal fulcro del racconto: il viaggio dei migranti, di coloro che sono vite umane gettate fra i flutti delle acque sporche di sangue del Mediterraneo di oggi, dell’oceano Atlantico di ieri. Emigrati italiani del secolo scorso e immigranti in Mare nostrum di oggi si abbracciano nelle similitudini, nelle parole con cui siamo stati descritti allora, e descriviamo, o accettiamo silenziosamente che si descriva l’altro, oggi. Un gioco di analogie, un escamotage che Nicola Costa usa ad arte per suscitare empatia.

Naufragio, Francesco De Grandi; copertina di Tempesta, Davide Camarrone, Corrimano Edizioni

Se l’altro, in quanto diverso da noi, non riesce a risvegliare la nostra sensibilità atrofizzata, l’altro da noi diveniamo allora noi stessi, i nostri avi stanchi dopo giorni in mezzo all’oceano, disorientati dallo sradicamento, distrutti dal senso di solitudine e inadeguatezza che le parole di spregio e il visibile disgusto degli americani riservano loro. È la storia di tre fratelli analfabeti che scrivono alla madre rimasta in Italia, dopo aver finalmente trovato qualcuno che possa tracciare delle lettere comprensibili al posto loro. Un racconto fatto di lunghe attese al porto, visite mediche invasive, sfruttamento, insulti e criminalizzazione. Una narrazione sugli italiani confermata dalla cronaca del tempo, dagli articoli di giornale sul Times, dai libri ancora oggi reperibili che con teorie fantascientifiche “mostravano” l’intrinseca diversità, se non proprio l’inferiorità, degli italiani rispetto ai Wasp.

Uno storytelling che conosciamo bene e che risuona nelle cronache contemporanee, quando i migranti sono altri. Quelli che partono dalla Libia, dalla Turchia, che giungono sulle nostre coste spinti dalla possibilità di un benessere materiale superiore o da una speranza di qualità della vita almeno civile, alla ricerca di quello che potremmo definire European Dream.

Non solo cronaca in questa messinscena, ma anche letteratura: una scena dell’Esodo conta gli anni trascorsi dagli israeliti nel deserto. Un mare di sabbia immaginata, in questa fuga dall’Egitto, rappresenta il preludio a tutte le diaspore della nostra storia. Sciascia poi, Il lungo viaggio, con uno scafista imbroglione che approfitta dell’ignoranza e del desiderio di riscatto di poveri contadini siciliani del Novecento. Sottratto loro il denaro con la promessa di arrivare in una spiaggia del New Jersey, all’alba del dodicesimo giorno vengono sbarcati nella stessa Sicilia; ci metteranno un po’ per accorgersi della truffa, un risvolto umoristico forse, ma nell’accezione più pirandelliana del termine, in quel sentimento del contrario che dovrebbe risvegliare un barlume di coscienza. Infine, un «Mare nostro che non sei nei cieli» di Erri De Luca, i cui versi recitati dall’alternarsi delle voci degli attori e delle attrici non hanno risparmiato il pubblico dalla commozione.

La struttura della pièce è alternata. Ogni azione scenica è preceduta da una spiegazione di intenti densa, che invade il proscenio con l’intervento dei teatranti, una modalità forse lievemente didascalica, ma perfettamente capace di colpire nel vivo lo spettatore, di scuoterlo, impedendogli di rilassarsi sulla sedia in preda alla catarsi. Perché non deve essere liberatorio uno spettacolo di questo tipo, non deve assolvere, sciogliere i nodi, ma mira piuttosto a lasciare un groppo in gola, ad agganciarsi alla mente collettiva del pubblico per restare lì, come una scheggia conficcata nel dito. Piccola forse, ma capace di scalfire il callo dell’indifferenza.

Il teatro in azione è forse l’ultima forma espressiva non intaccata dalla ripetizione in serie denunciata da Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Non potrete rivedere davvero Il viaggio – Storie di migranti di ieri e di oggi; nemmeno un video potrebbe suscitare la stessa sensazione provata dal pubblico nella platea buia, nell’osservazione di prima mano della prossemica, nel sentire con tutto il corpo le grida che squarciano la linearità di un concertato; dovrete dunque fidarvi delle mie parole e di quelle di chi era seduto sugli spalti nelle giornate di sabato e domenica.

La pièce di Nicola Costa e l’interpretazione dei suoi allievi non hanno perso l’aura nel comunicare il messaggio centrale in maniera piena: gli esseri umani sono esseri umani sempre. Una tautologia che recupera però una semantica piena, rendendo Il viaggio, storie di migranti di ieri e di oggi fedele alla sua promessa: quella di essere uno spettacolo apartitico, frutto di ragionamento e coscienza civile, capace, se non di insegnare, almeno di rammentare qualcosa, di instillare il seme del dubbio nella mente degli spettatori.

Grazie dunque al cast de Il Laboratorio Accademico di Drammatizzazione Permanente del Centro Studi Teatro e Legalità di quest’anno, composto da Patrizia Auteri, Tiziana Cosentino, Tiziana D’Agosta, Daniele Di Martino, Filippo Giurbino, Simona Grasso, Noemi La Cava, Leonardo Nicolosi, Adriana Pistorio, Agata Raineri. E grazie a Nicola Costa e all’assistente alla regia, Conny La Cava, per aver reso vivido davanti ai nostri occhi Il Viaggio, uno strappo nel cielo di carta che cancella, almeno per un po’, l’apatia del notiziario della sera. 

© Riproduzione riservata.

Elisabetta Siotto

Nata il 25 dicembre 1995, è cresciuta a Nuoro, nel cuore della Barbagia. Dopo aver frequentato il liceo classico Giorgio Asproni e dopo aver maturato una piccola esperienza giornalistica con la testata online Globalist, è partita per il Sud alla scoperta della Sicilia.

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