29 Luglio 2023

Storia di un delitto. “Stranizza d’amuri”, regia di Giuseppe Fiorello

di Antonio Messina

C’è una storia che riecheggia per le vie di Giarre; di tanto in tanto qualcuno ne parla a voce alta e allora l’eco si fa più forte e si intrufola nelle orecchie della gente, giacendo per qualche tempo sul fondo di una conca che è al contempo pregna di consapevolezza e senso di colpa. Poi sparisce, questa voce, si dissolve nell’aria così come è arrivata, in attesa di ritornare. Ciclicamente, questa storia ci ricorda del debito che il paese ha nei confronti di due ragazzi destinati a lasciare un segno indelebile. Un’onta, una macchia che nessuno potrà mai davvero lavare, che è stata pagata con la vita. Questa storia proviene dal passato, esattamente a quarantatré anni di distanza dal momento in cui ne scriviamo. E prima di noi ne ha parlato lo scrittore Valerio La Martire nel suo romanzo Stranizza, pubblicato nel 2013 per Bakemono Lab. Adesso Giuseppe Fiorello si è cimentato per la prima volta dietro la macchina da presa in veste di regista per narrare proprio questa “strana” vicenda, con il film Stranizza d’amuri.

È il 1980 quando Gianni (Samuele Segreto) e Nino (Gabriele Pizzurro) si scontrano lungo una strada sterrata, entrambi a bordo di due motorini Piaggio Si. Tra i due nasce un’amicizia di profondo rispetto che farà sì che Gianni si assicuri un lavoro, dando una mano al ragazzo nell’allestimento delle bombe da sparare alla festa del paese, prima, e poi alla “cava”. Ma non solo: Gianni mangerà insieme alla famiglia dell’amico, passerà le giornate con loro e in particolare con Nino, tra un bagno a mare e la scoperta di luoghi nascosti. Ma non è tutto rose e fiori, per i due ragazzi, soprattutto per Gianni. Il ragazzo, infatti, è conosciuto nel paese come “u puppu ‘cco bullu”, cioè un omosessuale certificato, in quanto qualche tempo prima era stato denunciato dalle forze dell’ordine per essere stato visto in macchina in compagnia di un ragazzo. Gianni ha delle tendenze particolari, insomma, delle stranezze, e per questo i ragazzi del quartiere non lo lasciano mai in pace: lo bullizzano, si prendono costantemente gioco di lui e poco possono fare gli adulti, laddove sono loro stessi a vedere per primi quella “stranezza” come qualcosa di cattivo, di sbagliato e immorale. Chiaramente, la vicenda dei due ragazzi è destinata a procedere verso un baratro, fino all’inevitabile fine che spetta a due come loro.

Giuseppe Fiorello, come dicevamo, in veste di regista, si prende la responsabilità di raccontare questa storia maledetta. Il lavoro che fa è sorprendentemente intelligente: invece di collocare la storia in un contesto specifico, egli si limita a dipingere con pochissimi ambienti la realtà di un qualsiasi paese di provincia siciliano con le sue credenze, le sue superstizioni, l’ignoranza che porta ad avere timore di ciò che non si conosce o che si è sempre considerato strano e, di conseguenza, immorale. Il comportamento degli adulti, nel film, rispecchia perfettamente quello che era il contesto sociale degli anni ’80: si tratta di figli non solo dell’ignoranza, ma anche di una generazione vecchia, fatta di ideali e meccanismi retrogradi che non permettono al piccolo centro di evolversi, dove tutti sembrano rimanere immobili dentro una bolla temporale mentre il mondo attorno a loro inevitabilmente cambia. Ma come si può permettere che certe cose avvengano, quando la gente parla? Come si può evitare di essere guardati con lo sguardo torvo, accusatorio, quando le parole che passano di bocca in bocca, facendo diventare reale qualcosa di cui inizialmente si ha solo il sentore e non la certezza, feriscono più di qualunque atto di violenza fisica?

Nonostante il contesto in cui si ritrovano, Nino e Gianni riescono a trovare dei momenti in cui isolarsi e spogliarsi delle proprie armature, per sentirsi al sicuro dalle minacce e, soprattutto, dagli insulti. I momenti tra i due ragazzi non sono sdolcinati, fatti di parole d’amore scontate o gesti adolescenziali: quelli che vediamo sono due ragazzi che cercano di darsi coraggio l’un l’altro, che finiscono a volte per farsi del male pur di proteggersi a vicenda, che tentano di riscoprirsi in una concezione di amore che per loro non ha nulla di strano ma, anzi, è del tutto naturale. Attraverso i due ragazzi non vediamo la semplice retorica dell’amore fine a se stesso, ma la forza che si può acquisire tramite esso, fino a portare a un gesto estremo che sia da monito per gli altri: non importa quello che la gente dice e pensa. E per quanto i genitori tentino di intralciare la relazione, clandestina o meno che sia, quella coppia sarà disposta a tutto pur di non rinunciare all’unica cosa per la quale vale veramente stare al mondo.

Stranizza d’amuri non si sofferma semplicemente sull’aspetto più da “curtigghiu” (da pettegolezzo) delle dinamiche di paese e tenta di calare lo spettatore adesso nei panni dei due ragazzi, adesso nei panni degli adulti. Un ruolo importante lo giocherà, infatti, la madre di Nino, che con un gesto semplice quanto decisivo traccerà il resto del percorso per entrambi i ragazzi. Il dolore non è solo dei due innamorati, ma è soprattutto di quelle persone che hanno capito e non possono agire in maniera differente a causa della realtà retrograda che li circonda. Ma è così che deve andare, ed è giusto che, col senno di poi, le cose siano andate in una determinata direzione, perché altrimenti quello che c’è stato dopo non avrebbe potuto realizzarsi.

La vicenda reale, conosciuta come “Il delitto di Giarre” è una vicenda che, come dicevamo, viene fuori in maniera ciclica e raccontata come se fosse una leggenda. I due giovani giarresi, Giorgio Agatino Giammona, di venticinque anni, e Antonio Galatola, di quindici, morti nel 1980, erano noti nel paese come “i ziti” (i fidanzati). Dopo un periodo di traversie e vessazioni, i due sparirono per un paio di settimane, finché non furono ritrovati morti, mano nella mano, in fondo a un vallone e con un colpo di pistola alla testa ciascuno. La notizia alzò un polverone senza precedenti in quel periodo e portò alla fondazione dell’Arcigay e del primo movimento formato da femministe lesbiche, conosciuto come Le Papesse. Il delitto, a oggi, rimane senza un colpevole: le indagini, infatti, inizialmente portarono ad accusare un nipote di Galatola che si era dichiarato colpevole, ma che ritrattò in un secondo momento la sua affermazione. Le teorie sulla morte dei due ragazzi sono molte. Tra le ipotesi vi è anche la possibilità che i due abbiano semplicemente pianificato di togliersi la vita, consapevoli che la loro relazione in quel mondo non sarebbe mai stata accettata.

Giuseppe Fiorello non ci mostra la Giarre degli anni ’80: la fotografia ci porta nelle campagne dell’entroterra siciliano, tra Marzamemi, Priolo e Pachino, ed è accompagnata dalle canzoni di Battiato e da altri pezzi che passavano in radio. Il risultato finale ci consegna la bellezza e al contempo l’asprezza di un territorio bruciato dal sole e solcato da passi affaticati di tutti quelli che lo percorrono. E lo fa con una semplicità che colpisce lo spettatore, senza cadere nelle più verghiane immagini verso le quali il film potrebbe virare. Le figure che gravitano attorno a Nino, tuttavia – a detta di chi ha vissuto in quel periodo – sembrano ispirate a personaggi, anche pittoreschi, realmente esistiti; una ragazza, in particolare, pare richiamare quella che in molti conoscevano come Ninetta.

 L’operazione di Fiorello però, al di là di questo, è chiara: non necessariamente abbiamo bisogno di vedere il contesto reale in cui si è consumata la vicenda. Il film parla da sé dicendoci esplicitamente che un amore come quello di Toni e Giorgio può nascere nella Giarre degli anni ’80 così come in un qualunque altro paese o città del mondo, perché il sentimento che lega due persone è un sentimento universale che non dovrebbe conoscere confini o ostacoli.

A distanza di quarantatré anni, il film di Fiorello può servire a coloro i quali hanno vissuto in prima persona la vicenda per riconsiderare quanto accaduto, e riesaminare il proprio comportamento laddove si è preferito chiudere gli occhi o girarsi dall’altro lato. Può servire anche a coloro i quali la vicenda non l’hanno vissuta, alle nuove generazioni e a tutti quelli che hanno qualche dubbio su quanto possa essere “giusto” che si consumi un amore del genere. Può servire per sensibilizzare, soprattutto, la società al rispetto dei diritti di tutti gli esseri umani.Non sapremo mai se i due giovani, morendo, sperassero di cambiare il mondo e l’atteggiamento della società nei confronti della comunità LGBTQ+ tutta, ma Fiorello – e ancora prima La Martire –, di certo vogliono far sì che la vicenda non si ripeta, facendoci capire che quello che consideriamo “stranizza” non dovrebbe esserlo per niente. Perché di strano, nell’amore, non c’è nulla.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Antonio Messina

È nato a Catania il 2 gennaio del 1993. Ha frequentato il Liceo Scientifico “Leonardo” di Giarre. Dopo il diploma segue due anni di Lingue e Culture Europee e Orientali a Catania, ma lascia per dedicarsi completamente alla stesura del suo primo romanzo, Le Ere dell’Eden – Genesi, una rilettura in chiave sci-fi delle origini di Dio, pubblicato, poi, nel 2015 per la casa editrice Carthago.

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