13 Ottobre 2021

Tommaso, ovvero dell’integrazione. “Una vita violenta” di Pier Paolo Pasolini

di Giada Di Pino

Il secondo romanzo di Pasolini è la storia di un ragazzino di borgata, Tommaso. Un romanzo di formazione, ambientato a Pietralata, in quella realtà, oggi scomparsa, che fu la periferia romana degli anni ’50

Qui il sottoproletariato urbano e gli sfollati dalla guerra appena conclusa vivevano nell’indigenza e nella miseria, accampanti in baracche di legno e tendoni di plastica in mezzo al fango. 

E qui vive Tommasino Puzzilli, e fin dalla prima infanzia la sua esistenza è una continua lotta per la sopravvivenza, un continuo rivestirsi di arroganza e di violenza per non essere sopraffatto, per non diventare una vittima, e – perché no? – per poter raccattare un po’ di denaro con cui andare al cinema, comprare le sigarette e concedersi qualche piccolo piacere quotidiano. 

Pier Paolo Pasolini

Tommaso è un “ragazzo di vita” che vive alla giornata, che non ha aspirazioni di un futuro, e la sua storia è macchiata dal sangue fin dalle prime pagine. 

Tommaso, come Lello, come il Zuccabbo, come il Cagone, come tutti gli altri abitanti di Pietralata, è uno sconfitto, relegato ai margini di una società al cui interno non c’è posto per ragazzi come lui. La sua storia è la storia di una caduta nella più terribile realtà della violenza della vita, ed è anche una storia di risalita, il tentativo di rialzare la testa, nonostante tutto, e di raggiungere una vita di pace e di serenità a modello borghese con la ragazza di cui è innamorato, Irene. 

Una scena tratta dal film.

La caduta e la discesa caratterizzano proprio le due parti in cui il romanzo è diviso, come se il giovane percorresse idealmente un Inferno dantesco e un Purgatorio, ma non il Paradiso: non esiste Paradiso per i ragazzi di borgata. Esiste però la possibilità di un riscatto, un riscatto sociale che è anche un riscatto della loro anima.

Sulle opere di Pasolini, come vale sempre per i grandi scrittori, si potrebbero scrivere fiumi e fiumi di parole e di saggi, di libri e di studi e, nonostante tutto, si avrebbe sempre qualcosa da dire. Una vita violenta, pur essendo il più famoso romanzo dell’autore, quello con cui il giovane scrittore e poeta di Casarsa ha iniziato – finalmente! – a conquistarsi il favore del pubblico, è anche uno dei meno analizzati dalla critica odierna. Non vi è un motivo preciso. Forse perché la scelta di analisi ricade sempre sulle opere poetiche e su quelle incompiute, forse perché i riferimenti troppo politicizzati al comunismo lo rendono un romanzo scomodo oggigiorno, o forse perché la vita stessa dell’autore, con quella sua inspiegabile e misteriosa morte, ha reso il primo oggetto di studio Pasolini stesso, che davvero per certi versi visse, forse inconsapevolmente, secondo la massima di Wilde, rendendo cioè la sua vita un’opera d’arte

Tommaso Puzzilli, una scena dal film.

Eppure, anche questo romanzo, come tutto il resto della sua produzione, ha molto da dire e va sicuramente al di là della semplice definizione di “romanzo di formazione (mancata)”, come è stato tante volte classificato. Prima di tutto vi è la lotta di classe, la differenza terribile e sostanziale, da noi oggi solo marginalmente percepita, tra la classe borghese dominante, che nel romanzo si identifica con la polizia, e il sottoproletariato, vittima e carnefice al tempo stesso: dal sottoproletariato viene la delinquenza, e questo è indubbio. 

Ma, sembra domandarci Pasolini, che altro può venire da questo contesto e che cosa può produrre un ragazzo di Pietralata, se non gli è data possibilità di altro, se nemmeno il lavoro onesto gli viene concesso, se emarginato e costretto a vivere in quartieri-ghetto, senza assistenza e senza speranza di un futuro diverso dalla realtà in cui vive? 

Pasolini e i ragazzi di borgata.

Abbandonati dallo Stato, solo il Partito Comunista assiste i sottoproletari, e anche in quel caso si tratta pur sempre di un’assistenza con troppe poche risorse e non esattamente disinteressata… Eppure sono ragazzi, eppure sono vite, eppure possono essere eroi. Perché anche i ladri, le prostitute, i violenti, i cafoni, i delinquenti, i rifiuti della società hanno un’anima e possono manifestarla, se gliene viene data una possibilità. 

Tommasino simboleggia con la sua vita di violenza e con il suo animo buono, nonostante la corazza di arroganza di cui si cinge, che anche i morti di fame, anche gli emarginati possono aspirare a una vita migliore, che possono elevare animo e sentimenti quando la vita gli presenta le occasioni per poterlo fare, le “tappe di crescita” che sono trampolini di lancio. 

Tommasino è simbolo, soprattutto, di quel riscatto morale ed esistenziale di ciascun sottoproletario, di ciascun delinquentello di periferia che non potrà mai migliorare la propria condizione, perché ancora esiste la divisione di classe, ancora esiste una società divisa, in cui l’integrazione è solo un sogno lontano. 

Oggi, pare, abbiamo superato la lotta di classe, ma abbiamo ancora tanto da fare e tanto da conquistare per raggiungere una società che sia inclusiva ed egualitaria, che conceda a tutti, cioè, indipendentemente dal sesso, dal colore della pelle, dalla terra di origine, o da qualunque altra cosa, le medesime possibilità. 

L’importante è non fermarsi.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Giada Di Pino

Ha lavorato presso la Leonida Edizioni, ha frequentato il Master in Editoria della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e ha svolto uno stage presso Il Saggiatore. Oggi lavora come editor freelance e come insegnante. 

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