15 Marzo 2023

Nella Roma che non hai mai visto. “Pulp Roma” di Tommaso Pincio

di Sofia Sercia

Non è facile spiegare a chi non l’abbia letto che cosa sia Pulp Roma di Tommaso Pincio. Non si può definire un romanzo, né tantomeno una raccolta di racconti, come si potrebbe evincere dai primi capitoli, e neppure appartiene alla categoria del saggio. Non potendo però continuare con una serie di negazioni, a beneficio di un possibile futuro lettore, tenterò qui di dire ciò che Pulp Roma invece è

Ci troviamo davanti a un’opera che ricorda in certa misura il pastiche letterario gaddiano (probabilmente non a caso nominato all’interno dell’opera stessa), ma non sapendo se l’autore sarebbe d’accordo col paragone, mi limiterò a dire che si tratta di un’alternanza di sezioni narrative e riflessive, in cui ogni capitolo è indipendente, ma allo stesso tempo collegato agli altri da temi e considerazioni che si intersecano. Immancabile sfondo di ogni racconto e ragionamento, sempre lei, grandiosa, languida e decadente: Roma. La sensazione complessiva che si ha sfogliando queste pagine è che l’autore si sieda amichevolmente davanti a noi e che, a tarda notte, mentre si beve insieme, tergiversi sulla sua vita, sulle sue aspettative deluse, porgendoci nel frattempo di tanto in tanto i suoi scritti per chiederci che ce ne pare. 

Poiché non sono previsti rimborsi, è giusto avvertire il lettore prima che proceda all’acquisto. A dispetto del titolo (di una sconcezza allettante, lo riconosco), questo è un piccolo libro. Non un libro piccolo, attenzione, quantunque sia pure minuto. Ė piccolo quanto a contenuti e ambizioni.

Lo stesso Pincio non manca, come vediamo, di ammonire il lettore prima di entrare nel vivo dell’opera. A seguito di un primo capitolo introduttivo, lo scrittore ci presenta un racconto di cui lui stesso è protagonista, rielaborazione di alcune idee narrative già sviluppate nel precedente Cinecittà: l’eroe si trascina fra le strade di una Roma apocalittica, nella quale un bizzarro fenomeno, “la calda estate”, sta facendo fuggire i cittadini dalla città rovente verso mete più ventilate. Il protagonista, annichilito dal caldo, privo di qualsiasi volontà o scopo, affronta la sua inettitudine fumando erba e ubriacandosi, nell’attesa che fra una sbronza e l’altra i suoi problemi si dissolvano prodigiosamente. La storia va avanti in un bizzarro crescendo di delirio e violenza, per poi arrestarsi bruscamente.

Le pale del ventilatore spostavano l’aria opprimente della stanza senza dare alcun sollievo. Giravano a vuoto, proprio come la mia vita.

 Questo primo racconto raccoglie già molti dei temi cari a Pincio, ma a colpire è  soprattutto il suo linguaggio schietto e disilluso, nel quale sembra quasi di poter sentire l’eco della voce di alcuni famosi scrittori americani. A tratti pare, infatti, di intravedere l’inettitudine di alcuni dei personaggi di Bukowski, l’ironia e l’irriverenza di Palahniuk, le suggestioni surreali di Richard Brautigan.

A questo punto il lettore crederà di avere bene o male capito dove voglia dirigersi Pincio, solo per poi rimanere spiazzato e assistere nel capitolo successivo a un notevole viraggio di tono e di stile

In Criptoamnesie l’autore lascia in sospeso la narrazione e, con il pretesto di spiegare le ragioni che attirarono niente di meno che Sigmund Freud nella capitale, spinge poi le sue riflessioni sulla psicoanalisi fino a fornirci la spiegazione del fenomeno della criptoamnesia, un disturbo della memoria per il quale ci si persuade che dei vecchi ricordi siano creazioni originali della mente. Sebbene non sia immediatamente chiaro dove l’autore voglia andare a parare con queste premesse, il lettore si trova ad accompagnarlo nei suoi ragionamenti e viene condotto  poi al vero nocciolo della sua riflessione: la funzione della scrittura e dello scrittore, quest’ultimo definito qui da Pincio un imbroglione, un deformatore della realtà. Essendo la memoria per sua natura fallace, l’autore è il primo a non sapere, il più delle volte, se ciò che narra sia frutto di un ricordo veritiero oppure di una menzogna. La scrittura lascia il lettore continuamente interdetto, attraverso una sorta di tecnica metanarrativa che, come effetto collaterale, ci porta effettivamente a dubitare di tutto ciò che Pincio sta raccontando.

Non sarò certo io a svelare qui di cosa trattino nel dettaglio i capitoli successivi (non sapere mai esattamente cosa aspettarsi capitolo dopo capitolo è proprio uno degli elementi affascinanti di questa lettura). 

Nel complesso, quello che il lettore compie sfogliando il libro dalla prima all’ultima pagina è un viaggio all’interno della mente dell’autore, durante il quale vengono spiegati molti dei processi creativi che hanno portato alla genesi di alcune sue opere, in particolare Cinecittà, da lui definito il suo “romanzo romano”. Moltissimi degli scenari descritti e degli aneddoti raccontati, poi, sono riconducibili ad altri suoi libri, rimandi questi che sembrano spingere l’autore verso un’incessante riflessione su se stesso e sul suo lavoro.


Una delle visioni che più sembrano ossessionare lo scrittore è l’immaginario legato all’apocalisse: prospettiva che sembra in realtà attrarlo, più che terrorizzarlo. Seducente ai suoi occhi è l’arrivo di un qualche cataclisma che possa mondare tutte le assurdità e i peccati della terra. Una fine che potrebbe auspicabilmente gettare le radici per un nuovo inizio. Il fascino per la fine del mondo è strettamente legato allo sguardo cinico e disincantato di Pincio, che ci racconta di un presente in cui tutti i sogni e le illusioni della giovinezza sono ormai caduti. Se il mondo che ci circonda è da considerarsi nel suo complesso deludente, la sua fine non potrà essere così temibile.

E pare evidente che per lo scrittore il miglior sfondo possibile per l’apocalisse non possa essere che Roma, città la cui grandezza sta forse più nella caduta che nell’ascesa. Luogo dove la languida atmosfera evoca la maestosità di ciò che fu, e che mai più sarà. 

Ma Pincio ama così visceralmente la sua città che non gli basta narrarla con i propri occhi: qui ci viene raccontato infatti della Roma di Fellini, di Pasolini, dell’Hotel Excelsior in cui Kurt Cobain tentò il suicidio, dello stupore di Freud durante la sua prima visita, in un moltiplicarsi di punti di vista che aumentano la profondità dello sguardo sullo stesso scenario, come fossero mille specchi sullo stesso oggetto.

Ammetto che, fra tutti, questo non è forse il libro più indicato per avvicinarsi per la prima volta alla scrittura di Pincio, che pure è molto godibile. Non tutti i suoi altri romanzi sono infatti così  complessi e eterogenei; alcuni dei topos già presenti in Pulp Roma si possono ritrovare in molte altre sue opere, ma sviluppati in maniera più strutturata e coesa.
Tuttavia, per i lettori che non si lasciano intimorire da strutture non lineari, non è neppure da escludere che si possa iniziare a conoscere Pincio proprio con quest’opera, ripubblicata quest’anno in una nuova edizione dal Saggiatore. Dopo una possibile leggera resistenza iniziale, se saprete immergervi nella storia, viaggerete per una Roma mai vista prima, in compagnia di chi l’ha amata e trasfigurata con la sua penna.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Sofia Sercia

Nata a Milano il 14 giugno 1998. Dopo aver frequentato il liceo linguistico Alessandro Manzoni, si laurea in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università Statale di Milano. Nel 2022 ha conseguito un master in editoria presso la Villaggio Maori Edizioni. Attualmente collabora con San Paolo Edizioni alla redazione di testi per la rivista PagineAperte.

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