24 Maggio 2023

Abissi color sangue. “Mia sorella” di Fosca Salmaso

di Giulia Chines

Se esiste un caso in cui il sapiente lavoro editoriale riesce a venderti come interessante un prodotto che forse, per gusto personale, non compreresti è proprio questo. Fosca Salmaso esordisce con Mia sorella, che entra nella decina del Premio Opera Prima (POP) promosso dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, e il romanzo ci viene presentato come una storia intrigante, ricca di mistero e che si staglia in equilibrio sul filo che separa il mistico dalla dura realtà. Di fatto, di mistero c’è ben poco.

La storia si focalizza su Alice e sua madre, protagoniste di un dramma familiare che le ha portate a rimanere le sole in casa. La morte della sorella gemella di Alice, Matilde, ha lasciato un vuoto incolmabile nelle loro vite, ed è stata accompagnata dalla scomparsa del padre, che ha deciso di abbandonarle dopo il lutto della figlia. La tensione nella vita delle due donne è palpabile: se la madre è costantemente apprensiva ma anche giudicante, la ragazza, invece, vive la pressione della sua inadeguatezza agli occhi della figura materna e finisce per vivere chiusa fra casa e scuola. Tutto cambia quando arriva Egle, che ricorda incredibilmente ad Alice la sorella scomparsa: non nell’aspetto, ma nei piccoli gesti. Ecco dunque che Alice compie la scelta che diviene motore narrativo di tutta la trama: decide di portare Egle in casa, come se questo potesse curare la madre dal suo dolore. Ma molto di più l’aspetta.

Fosca Salmaso

L’incipit del romanzo è abbastanza faticoso da attraversare. Siamo pervasi da un senso opprimente di angoscia che permea ogni singola parola, ogni gesto, ma non ci viene dato (per almeno venti pagine) alcun motivo davvero buono per continuare la lettura.  Quando però entriamo nel clou della vicenda, il romanzo scorre abbastanza velocemente. Certo, siamo curiosi: vogliamo finalmente sapere cosa accade nel momento in cui Egle entra a scombinare le vite delle due donne, ma ci rendiamo conto che la trama si rivela prevedibile. Al di là della bellezza della scrittura, tutto risulta già sentito. Il finale stesso, le azioni di ogni personaggio, il mistero di Egle che viene svelato: tutte queste cose hanno il sapore di qualcosa che già sapevamo, come un gossip che si espande e si diffonde nelle vie di una città. E, dunque, il finale non ci sorprende. Non solo, la frase con cui termina il romanzo – e sappiamo bene, noi lettori, l’importanza di quell’ultimo momento – rimane come sospesa. Poetica, senza dubbio, ma lascia un insistente senso di irrisolto, come se una sinfonia terminasse con la nota sbagliata. Non sembra di essere giunti alla fine, giriamo la pagina cercando il pezzo mancante e ci ritroviamo con… niente. Una pagina bianca. Sì, è vero, chi non ama un finale poetico? Ma senza un punto fermo alla fine di una frase, nulla è finito per chi legge: è questa la sensazione con cui restiamo.

La storia ci ricorda una versione distorta di Caino e Abele al femminile. Uno odiato, l’altro amato. Uno sbagliato, l’altro giusto. Le opposizioni ricalcano quelle mitiche, costantemente. Anche certi snodi di trama che dovrebbero rappresentare delle “rivelazioni” divengono quasi un’ovvietà in questo contesto. Si tratta di un parallelismo voluto? Sin dalle prime battute sentiamo di conoscere la colpa di Alice e, anche se non ne distinguiamo i dettagli esatti e ne vediamo solo i contorni sfumati, non c’è sorpresa quando arriviamo a leggere quella “verità”.

Persino il personaggio della madre, la disabilità che si porta dietro, l’odio per il mare, chiaro già dalle prime frasi, tutto la riporta – nelle sue scene “madre”, appunto – a una versione sbiadita della magnifica Lady Macbeth. Uno dei momenti che rimane impresso è quello della donna, inginocchiata a terra, circondata da rose recise mischiate a sangue e acquerello rosso scuro. La macchia sul parquet, che cerca ostinatamente di togliere fino alla resa: la macchia che lei, daltonica, vede come un enorme abisso blu che la tormenta. Tutto sembra una copia di topoi parecchio usati, una riproduzione fatta con mediocre tecnica di disegno.

Illustrazione di Margherita Paoletti

In sé, il libro non è certo da definire un totale “no”, anzi: ha un corpo che ti spinge abbastanza avanti a leggere e prosegue la sua spinta per almeno un centinaio di pagine. Lo stile di scrittura ti cattura, riesce a trasmettere perfettamente l’ansia che deve marcatamente sottolineare. Ma manca quel tanto desiderato effetto sorpresa e alla fine rimani con il dubbio se la storia di Alice e Matilde possa essere qualcosa di più del già sentito che appare.

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Il nostro giudizio

Giulia Chines

Nata a Palermo nel 1994, si diploma al Liceo scientifico Galileo Galilei della propria città. Prende una laurea triennale in Studi filosofici e storici e una magistrale in Scienze filosofiche e storiche all’Università degli Studi di Palermo, approfondendo in particolar modo gli studi antropologici di René Girard rispetto al capro espiatorio e agli stereotipi di persecuzione, oltre che al rapporto violenza-religione.


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