27 Maggio 2023

Discesa nel buio dell’inconscio. “Beau ha paura”, regia di Ari Aster

di Salvatore Basolu

Dopo essersi imposto come uno degli autori di spicco del panorama horror contemporaneo con Hereditary (2018) e Midsommar (2019), Ari Aster ritorna nelle sale con Beau ha paura e continua a sviluppare il proprio angoscioso percorso esplorativo sull’elaborazione del trauma.

Le due opere precedenti avevano già sviscerato i lati oscuri delle dinamiche familiari e la complessità del superamento del lutto in chiave orrorifica, mantenendo, però, alcune regole narrative del genere e in particolare la possibilità di un’interpretazione sovrannaturale-esoterica.

Hereditary
Midsommar

Nel nuovo lavoro del regista statunitense, invece, il terrore derivante dai rapporti affettivi immerge lo spettatore in un mondo grottesco e surreale che rifiuta il semplice dispiegarsi dell’intreccio per comprendere il film, forzando lo spettatore a  una serie di riflessioni allegoriche e simboliche per decifrarne il significato intrinseco. 

Beau ha paura, infatti, racconta l’allucinata odissea del protagonista, Beau Wassermann (Joaquin Phoenix), attraverso la lente distorta di un individuo segnato da fobia generalizzata, disturbo che lo costringe a vivere in un costante stato di apprensione e ansia. 

Con questa premessa,  il film, riprendendo e sviluppando l’idea del cortometraggio Beau, diretto nel 2011 dallo stesso Aster, procede adoperando il topos del viaggio: nel corto il regista racconta in sei minuti le vicissitudini di un uomo di mezz’età a cui vengono rubate le chiavi del proprio appartamento poco prima di andare a visitare la madre.

Il lungometraggio estende tale assunto di base, mostrando le peripezie che ostacolano il cammino verso la casa materna: con poche incisive inquadrature, unite a un rapido scambio di battute tra il protagonista e il suo psicoterapeuta,  Aster introduce così il motivo centrale delle nevrosi di Beau: il rapporto ansiogeno e dipendente tra madre e figlio

Nella prima sequenza del film, infatti, assistiamo alla soggettiva di un feto che abbandona il liquido amniotico per entrare nel mondo: le immagini sono confuse a causa degli occhi non abituati all’intensità della luce, ma lasciano presto spazio alla comparsa della madre di Beau, in preda al panico per essere stata separata dal suo bambino. Questa potente introduzione mostra quanto il viaggio nel film non sia un semplice spostamento fisico, ma rappresenti il lento discendere nella mente di un individuo instabile, strisciando tra interstizi di paure e ricordi per ricostruire i tasselli mancanti della sua vita.

Il misero appartamento di una sudicia periferia americana, allora, diventa l’ultimo baluardo che impedisce alla follia che imperversa per le strade di sconvolgere il fragile equilibrio mentale del protagonista e ogni sua interazione sociale si trasforma in un incubo a occhi aperti

Una volta abbandonato questo rifugio, infatti, Beau si ritrova ospite di una coppia che, dopo averlo investito, gli offre cure presso la propria casa per sdebitarsi dell’incidente: il personaggio viene così calato in un ambiente amorevole che pare compensare lo squilibrio del mondo esterno, nonostante la figlia dei due palesi una forte ostilità per la sua presenza.

Presto, tuttavia, lo specchio di una famiglia perfetta si frantuma: la ragazza ricerca le attenzioni dei genitori, i quali, esasperati dal dolore di aver perso un figlio in guerra, cercano ossessivamente di compensarne il vuoto aiutando un suo compagno d’armi affetto da PTSD.

Le disinteressate attenzioni ricevute da Beau, allora, rivelano la loro natura perversa: la coppia impedisce al protagonista di abbandonare la casa, mostrando come il contesto familiare possa diventare una trappola soffocante, in grado di impedire all’individuo di crescere e diventare autonomo

Dopo una disperata fuga dal suo luogo di prigionia, Beau si perde in un bosco, evidente riferimento dantesco al suo stato di confusione, e trova rifugio presso una compagnia teatrale itinerante che sta allestendo uno spettacolo incentrato su un dramma familiare. La visione della rappresentazione sul palco, tuttavia, diventa sempre più simile alla storia del protagonista, fino a fondersi con i suoi frammentari ricordi e creare una vita alternativa in cui riesce a essere felice.

In questa digressione interna al film, Aster, citando la potenza immaginifica del teatro come in Sogno di una notte di mezza estate, adopera l’animazione per sottolineare la labilità tra realtà e illusione: Beau sogna a occhi aperti e, grazie alla forza catartica dell’arte, riesce a ritagliarsi un momento di tranquillità prima di sprofondare di nuovo nell’incubo della vita vera.

Nella parte finale, infatti, il protagonista riesce a raggiungere la casa della propria infanzia ed è costretto ad affrontare il trauma della castrazione, sessuale e psicologica, unita al senso di colpa per la morte del padre e al rapporto odio-amore per la madre: Beau si trova davanti a un tribunale personale in cui giudice, giuria e carnefice si racchiudono in un’unica persona che emetterà la sua inevitabile sentenza.  

Dopo il successo assoluto di Everything Everywhere All at once, la casa di produzione A24 non si adagia sugli allori e decide di osare lasciando mano libera alla tragicomica sceneggiatura di Aster, alla sua prima esperienza con un budget elevato (€35 milioni). Davanti a questa prova, il regista non fallisce e realizza un film che unisce la sua consueta abilità alla macchina da presa a un comparto tecnico eccezionale: la fotografia è capace di adattarsi perfettamente ai cambi di registro della storia, coadiuvata dall’utilizzo di un montaggio sempre in grado di dettare con precisione il ritmo della narrazione e dall’ennesima interpretazione magistrale di Phoenix.

Il risultato finale  è una commistione di riferimenti visivi (tra i vari: il cinema di Charlie Kauffman, David Lynch, Alejandro Jodorowsky), permeato dagli studi psicologici di Freud e dai lavori di Kafka (in particolare Le Metamorfosi e Il processo), un’opera audace e complessa.

Tale costruzione enigmatica non risulta indulgente con lo spettatore, il quale non può permettersi una visione passiva, pena trovarsi accecato e stranito davanti a un surreale caleidoscopio di immagini paradossali. In conclusione, Beau ha paura risulta un progetto ambizioso, volontariamente repulsivo e dilatato fino all’eccesso: un’esperienza che lascia un retrogusto amaro e intenso, ma che spinge a porsi tante domande e tentare un altro assaggio per cercare di capirne appieno l’essenza più intima.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Salvatore Basolu

Nato il 30 giugno 1995 a Nuoro. Dopo il diploma presso il liceo classico Giorgio Asproni, frequenta il corso di Beni Culturali e Spettacolo dell’Università di Cagliari, conseguendo la laurea con una tesi monografica su Roman Polanski e  L’inquilino del terzo piano.

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