31 Marzo 2023

Il lato oscuro dell’umanità. “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd (parte prima)

di Giulia Chines

Ottavo album del gruppo britannico progressive rock Pink Floyd, The Dark Side of the Moon (1973) è anche uno dei concept album più discussi e osannati della storia della musica contemporanea. È proprio nel mese del suo cinquantesimo anniversario – con l’uscita di un box commemorativo prevista per il 24 marzo – che decidiamo di riprendere questo capolavoro per farne una recensione, a modo nostro.

Qual è il lato oscuro della luna? Gli esclusi, la follia, ciò che non è considerato normalità, ciò che non rispecchia il canone. Non solo, il titolo completo dell’album – dichiarato alla presentazione del 1972 – era Dark Side of the Moon: A Piece for Assorted Lunatics. Un pezzo per lunatici assortiti che tratta di tutto ciò che sfugge al nostro controllo razionale e rappresenta, così, il lato buio dell’astro, ovvero ciò che non vediamo, ciò che sta dietro la nostra parte cosciente. E bisogna sottolineare che parte dell’ispirazione venne proprio dal crollo psicologico del precedente membro e principale compositore/paroliere del gruppo: Syd Barrett. Ma le tematiche sono varie e toccano nodi fondamentali della vita e dell’animo umano, quindi senza indugio iniziamo il nostro viaggio nelle tracce che compongono il disco.

LATO A

Speak To Me (Intro)

Tutto inizia con un battito cardiaco. L’inizio della vita. Con un effetto cross-fade (il mixare più tracce alzandone e abbassandone i volumi alternativamente) sentiamo sovrapporsi i vari temi del disco. Prima un ticchettio di orologi, le lancette che si muovono (Time). Poi una voce: «I’ve been mad for fucking years, absolutely years», che ci parla di come sente di impazzire. A essa si sovrappongono suoni di un registratore di cassa e rumore frusciante di soldi che vengono contati (Money). Un’altra voce ci ricorda che tutti siamo pazzi, anche se non sappiamo spiegarlo davvero. Poi una risata, anticipazione di Brain Damage, a cui subito segue un rumore martellante che ricorda il motore di un aereo (On the Run). Mentre tutti i volumi scendono e la risata e il rumore assordante salgono, sentiamo una voce urlare (The Great Gig In The Sky) e subito scivoliamo nella prima traccia.

Breathe (In The Air)

Con un accordo di pianoforte registrato al contrario, entriamo in quello che sembra musicalmente uno stato di trance e che ci ricorda il tedio di quei pomeriggi passati alla ricerca di un modo per riempire il vuoto che abbiamo dentro, senza essere capaci di trovarlo: quei momenti dove ci ritroviamo ad “ammazzare il tempo”. La chitarra sembra un lamento annoiato, sembra dirci «trovami qualcosa da fare». Sembra quasi sbuffare. Vediamo come una soffusa luce pomeridiana che si spande in un salotto vuoto. Una sola persona distesa su un divano con posa scomposta, guardando la finestra. Socchiude gli occhi, lasciandosi inondare dalla luce, anche se sembra non godersela. È qui che le parole ci ricordano di respirare, di vivere il momento, perché non ritornerà. Ci esortano a preoccuparci degli altri, anche se pensiamo di poter rimanere soli. «Viviamo a lungo e puntiamo in alto», ma alla fine la nostra vita rimane solo ciò che tocchiamo e vediamo, al di là della futilità di una quotidianità frenetica. Noi siamo il Bianconiglio (sembra di sentire echeggiare nelle parole i riferimenti a Lewis Carroll, spesso inseriti da Barrett ai tempi in cui faceva parte della band). Dobbiamo correre da un incarico all’altro, senza posa. Il basso e la grancassa ci danno la misura costante di questo battere incessante del tempo, ma anche del cuore. La consapevolezza che, senza rendercene conto, finiremo presto nella tomba.

On The Run

Un battere veloce dei piatti della batteria, unito a un’unica nota bassa, ci introduce alla canzone successiva. Metafora della corsa dell’età adulta, della frenesia cui siamo sottoposti, ma anche evocatrice della vita stressante della band nel periodo del tour. I suoni ci ricordano infatti quelli di un aeroporto, riferimento alla paura di volare di Richard Wright (tastierista e cantante della band). Con una registrazione multitraccia, sentiamo tutti i rumori dell’ambiente in cui veniamo calati e una voce che annuncia un volo, ma protagonista musicale è il sintetizzatore. Con un susseguirsi incalzante e ripetuto di note, ci fa percepire tutta l’ansia del momento. Sentiamo i passi e il respiro affannato di un uomo che corre; ed effettivamente fu registrato un assistente tecnico mentre correva nella camera di riverberazione dello studio. Unire alle tracce musicali voci e rumori ambientali fu una cifra distintiva del gruppo. Sentiamo anche un organo il cui suono, registrato in modo da dare l’illusione di muoversi attorno a noi, ci ricorda degli aerei che volano sopra le nostre teste. Il sintetizzatore si fa sempre più pressante, come a metterci dentro un tarlo. «Stai correndo anche tu e lo sai.» Sempre più aerei, sempre più di corsa. La musica ci fa cadere quasi in uno stato di panico, finché irrompe una voce: «Live for today, gone tomorrow. That’s me», e una risata folle risuona. Entrambe ci ricordano che il tempo finisce prima che ce ne accorgiamo, che dobbiamo cogliere l’attimo. Si sente come il rumore di una frenata, forse il tentativo e la volontà di rallentare? Ma la corsa continua, i rumori si sovrappongono facendoci cadere in uno stato confusionario, quasi pericoloso. La corsa non si può fermare: un aereo atterra, uno parte. Poi, di nuovo la risata, mentre quel rumore che sembra una frenata improvvisa, come quando stai per fare un incidente, si fa più forte. Infine, uno schiantarsi, fracasso di qualcosa che sembra scoppiare e distruggersi. Tutto scema, quasi come il suono di chi era vicino a una bomba esplosa: sembra attutirsi ogni cosa. Ma si continua a sentire qualcuno che corre: fino alla fine, senza potersi fermare, anche se sembra di stare impazzendo.

Time

Silenzio. Il ticchettare di orologi, che iniziano tutti a suonare come sveglie in una quadrifonia assordante. Verrebbe quasi di coprirsi le orecchie, mentre il rumore decresce e un doppio battere come di cuore spaventato prende possesso della scena musicale. Un accordo grave, alternato da colpi di percussioni e lievi note acute, ci porta lentamente dentro l’umore della traccia. Il tempo controlla lo scorrere della nostra esistenza, eppure sembra che non facciamo altro che perderlo nella corsa, che abbiamo vissuto nel precedente brano. È il momento della vecchiaia: riguardiamo alla nostra vita e ci rendiamo conto che non abbiamo più nulla. Abbiamo atteso che qualcuno ci dicesse cosa essere e dove andare, abbiamo perso le piccole cose della vita: oziare sotto il sole e guardare la pioggia cadere. Vengono ripresi i temi sia di Breathe che di On The Run: «No one told you when to run, you missed the starting gun». L’assolo di chitarra è il dolore di un pianto nostalgico. Sembra quasi di sentire le lacrime, rabbiose, scendere sul volto di un immaginario protagonista. È un urlo disperato, è il gemito di chi sa di non avere più altro tempo e rimane con il proprio rimpianto. Poi si calma, mentre dei cori femminili lo accompagnano verso la stanchezza. Ma subito si riprende con la batteria, che irrompe poderosa. Le parole ci esprimono la furia che sentivamo prima nell’assolo: corri e continui a correre tutta la vita, tutto attorno resta uguale ma tu non sei più lo stesso, sei più vicino alla tua fine. I cori si fanno singhiozzi anch’essi, sembra che tutto sia avvolto da una nuvola di apatia, e infatti «Hanging on in quiet desperation is the english way». Poi, d’improvviso, torna il tema della prima canzone dopo l’introduzione: questo pezzo, nei libretti ufficiali, viene denominato Breathe Reprise. Finalmente si sente di ritornare a casa. È il momento definitivo della vecchiaia, il ritirarsi nel luogo che ci fa sentire al sicuro, ora che siamo stanchi e infreddoliti e vogliamo solo scaldarci in quel fuoco dei ricordi. Lontano si sente la campana suonare e comprendiamo che è il momento della morte.

The Great Gig In The Sky

Ultimo pezzo del lato A del disco, inizia subito con un pianoforte calmo ma afflitto. Il basso e la chitarra ci portano di nuovo in uno stato di trance.  Sentiamo una voce: «I am not frightened of dying, any time will do, I don’t mind. Why should I be frightened of dying? There’s no reason for it, you’ve got to go sometime». Una quieta rassegnazione, eppure la voce della cantante Clare Torry ci dice diversamente. Irrompe con un lamento straziante. Sono le urla di chi sa che sta per morire. E infatti questo fu detto alla cantante prima della registrazione: di pensare alla morte. Ascoltando una magistrale interpretazione, possiamo dire che l’unica cosa che riusciamo a fare è piangere a nostra volta. Sentiamo noi stessi il suo dolore. La voce accompagna e sembra definire la musica stessa. È la pura disperazione, la mancanza di ogni ragione, la follia di un momento che è indicibile per l’essere umano. Poi, la calma: il pianoforte e gli altri strumenti rallentano e la voce si fa quasi preghiera. Ci domandiamo cosa possa chiedere, poiché il canto non ha parole. È solo una vocalizzazione dei nostri tentativi di fare i conti con la più grande paura dell’umanità. La preghiera potrebbe essere rivolta a una divinità quanto a se stess*. E mentre sentiamo le parole di una donna, «I never said I was frightened of dying», la voce si fa sussurro. Sembra dire: «Ti prego, lasciami vivere ancora». Sembra ripetere ancora e ancora quel “ti prego”, mentre la voce sussurrata si spezza. Poi l’ultimo lamento di rassegnazione. Non rimane che questo: accettare la propria fine.

Siamo alla fine del lato A dell’album. Abbiamo visto quasi un intero ciclo di vita, dalla nascita alla morte. Siamo stati ammoniti sul cogliere l’attimo e non sprecare il poco tempo che abbiamo. In attesa della seconda metà del disco, vi consigliamo l’ascolto (rigorosamente con le cuffie) di The Great Gig In The Sky. Ma preparate dei fazzoletti!

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Giulia Chines

Nata a Palermo nel 1994, si diploma al Liceo scientifico Galileo Galilei della propria città. Prende una laurea triennale in Studi filosofici e storici e una magistrale in Scienze filosofiche e storiche all’Università degli Studi di Palermo, approfondendo in particolar modo gli studi antropologici di René Girard rispetto al capro espiatorio e agli stereotipi di persecuzione, oltre che al rapporto violenza-religione.


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