12 Agosto 2023

L’erede spirituale di “Lost”? “Yellowjackets”, regia di Ashley Lyle e Bart Nickerson

di Antonio Messina

Nel 1996 le Yellowjackets, la squadra di calcio femminile di un liceo nel New Jersey, si preparano a disputare le finali in Canada. La trepidazione è tanta e le ragazze sono in pieno fermento, decise a conquistare la vittoria con le unghie e con i denti. Il giorno della partenza, però, si rivela essere l’inizio di un tragico calvario che porterà le ragazze in una spirale di follia e terrore senza fine. L’aereo sul quale viaggiano, infatti, precipita in una foresta dispersa nel nulla e le ragazze si ritrovano costrette a sopravvivere con la stessa tenacia che le aveva caricate in vista della partita finale. I diciannove mesi di permanenza vengono vissuti dallo spettatore attraverso le azioni delle protagoniste principali: Shauna, Jackie, Misty, Taissa, Natalie e Charlotte.

Nel 2021, dopo venticinque anni, le stesse ragazze non solo sono sopravvissute all’ambiente duro e all’inverno rigido della foresta, ma conducono una vita apparentemente normale e, anche se vengono ancora ricordate come le “sopravvissute”, sono quasi tutte integrate nella società. Una sequenza di eventi e minacce sotto forma di cartoline, però, porterà il gruppo a riunirsi per affrontare un passato che sembra non averle mai del tutto abbandonate.

Yellowjackets inizia come una serie drama adolescenziale, per poi sfociare in un inquietante intreccio di violenza e mistero. Le ragazze, insieme al coach, sono costrette a trovare una soluzione a ogni problema, grande o piccolo che sia, pur di rimanere in vita: ripararsi dal freddo, nutrirsi, trovare dove scaricare i bisogni,  liberarsi dei cadaveri di chi è morto nell’impatto… Ma soprattutto, dove trovare da mangiare, quando non si riescono a cacciare gli animali che il territorio offre.

Ognuna delle protagoniste ha dei caratteri ben definiti, che sono destinati a evolversi nel corso delle due stagioni che compongono attualmente la serie – con una terza già in programma –, tirando fuori aspetti a loro stesse ignoti e rivelando così le parti più brutali e più oscure di ognuna di loro, spesso con risultati sorprendenti. Soprattutto in Shauna e Misty avvengono dei cambiamenti radicali: Shauna scoprirà la sua vera natura; Misty, invece, avrà modo di ampliare aspetti della propria personalità già evidenti, facendola diventare uno dei membri più utili della squadra. E non usiamo questo termine a caso, poiché Misty è una ragazza molto colta e intelligente e ciò le garantisce una disponibilità di risorse pratiche e psicologiche anche nelle situazioni apparentemente senza alcuna via d’uscita.

Nel presente, come dicevamo, le ragazze – ormai adulte – si ritrovano a dover scoperchiare un vaso di Pandora che credevano di aver sigillato definitivamente, nonostante i media tentino costantemente di fare luce su quanto avvenuto nella foresta. La sensazione infatti è che, una volta tornate, le sopravvissute non abbiano detto la verità su quanto realmente accaduto nei diciannove mesi di sopravvivenza. E non ci vuole certo un detective per capire che effettivamente dietro la vicenda si cela un mistero che nasconde molte ombre. Cosa nascondono esattamente le donne? Qual è la promessa che le accomuna e le costringe, a un certo punto, a mettere da parte tutti i conflitti per riunirsi? Se nella foresta assistiamo a una crescita caratteriale del gruppo, venticinque anni dopo vediamo come alcuni meccanismi che le contraddistinguevano nel passato siano ancora presenti, e in alcuni casi si siano ampliati a dismisura. Per fortuna, potremmo dire, perché se così non fosse le donne non sarebbero in grado di affrontare tutti gli ostacoli disseminati lungo la strada che le porterà a una scomoda verità. E potremmo parlare anche delle altre ragazze, ma rischiamo di svelarvi troppo, perché è sorprendente l’evoluzione che subiscono proprio alcune di loro.

Sulla falsariga di Lost, Yellowjackets si muove su due binari: il passato e il presente. Il presente vede le donne muoversi in maniera differente rispetto a quanto accadeva nel 1996, per via del contesto in cui si trovano. Se prima dovevano fare affidamento sulle proprie forze, fino ad agire in maniera efferata e impulsiva, nel presente devono fare i conti con le famiglie e gli amici da cui sono attorniate. Ogni azione, quindi, non si riflette più solo su loro stesse, ma ha delle conseguenze nei rapporti con mariti, mogli, figli. Le vicende del passato, invece, ci mostrano come un gruppo completamente inesperto sia messo alle strette dalle avversità che offre l’ambiente, portandolo spesso ad affrontare conflitti interni e fino alla necessità di fare affidamento a una figura specifica che lo aiuti a non annegare in un abisso di follia. Nel passato, Charlotte è quella che si farà carico, più delle altre, di questa responsabilità: il suo personaggio infatti è quello che a un certo punto traina le sopravvissute verso la “salvezza”, mettendo in atto comportamenti dalla dubbia morale. Le due stagioni, quindi, ci mostrano l’inizio di qualcosa di misterioso, esoterico e ancestrale nel passato, saltando direttamente alle conseguenze di tutto ciò nel presente. Tutto il resto è destinato a essere narrato nella prossima – o nelle prossime – stagione, nella speranza che si riesca a costruire in maniera funzionale quella che si prospetta essere una spirale di follia.

Dal punto di vista della fotografia e della regia, Yellowjackets si pone nei confronti dello spettatore in maniera chiara e semplice, per quanto pregna di simboli e dettagli a cui si deve prestare particolarmente attenzione. Siamo chiamati, infatti, a cercare insieme alle ragazze – trascinati dalla stessa Charlotte – di tenere il conto di tutti i pezzi che la sceneggiatura ci mette a disposizione per riuscire ad addentrarci nel mistero che avvolge la vicenda. Le immagini e i movimenti della macchina da presa sono chiari ma non didascalici. Vi avvertiamo: spesso la sceneggiatura ci inganna, così come spesso si ritrovano a essere ingannate le ragazze. Per una serie come Yellowjackets questo è un buon punto di forza, perché aiuta lo spettatore a non distrarsi e tiene alta l’attenzione. I sogni, le visioni, i rumori, le ombre, le voci, tutto è perfettamente innestato all’interno della trama e la regia riesce a muoversi senza problemi tra di essi, riuscendo nell’intento di incastrarle in alcuni momenti determinanti e facendoci credere che tutto sia come lo vediamo, per poi prontamente smentirsi. Segnaliamo in particolare la presenza di una scena dalle tinte lynchiane e che ci ha ricordato alcuni momenti di Twin Peaks, facendo alzare di gran lunga la qualità della serie tutta.

Yellowjackets è una serie che riesce a muoversi bene tra il mistero e il dramma senza scostarsi dalla sua natura ma, anzi, confermandola quasi in ogni puntata. La chiusura della seconda stagione rimanda chiaramente a un seguito che promette di scendere ancora più in profondità, tentando di toccare il fondo di un abisso che, per antonomasia, sembra essere senza fondo. Chi ha amato Lost, chiaramente omaggiato dai registi e nemmeno in maniera troppo velata, non può lasciarsi sfuggire Yellowjackets, che si pone su una linea più magica di quanto non facesse la suddetta serie.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Antonio Messina

È nato a Catania il 2 gennaio del 1993. Ha frequentato il Liceo Scientifico “Leonardo” di Giarre. Dopo il diploma segue due anni di Lingue e Culture Europee e Orientali a Catania, ma lascia per dedicarsi completamente alla stesura del suo primo romanzo, Le Ere dell’Eden – Genesi, una rilettura in chiave sci-fi delle origini di Dio, pubblicato, poi, nel 2015 per la casa editrice Carthago.

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