4 Dicembre 2023

Un noir elettrico. “Blade Runner”, regia di Ridley Scott

di Antonio Messina

Nel 2019 Los Angeles è un ammasso di metallo urlante e lucente che tenta di mostrare la propria imponenza tra la fitta nebbia che la soffoca e la pioggia battente che sembra volerne martoriare l’architettura. Il sole rimane intrappolato da qualche parte all’esterno del mondo, avvolgendola in un’oscurità perenne.

Rick Deckard (Harrison Ford) mangia tranquillo la sua cena, mentre da qualche parte l’agente Holden viene fatto fuori dal replicante Leon Kowalski (Brion James), un Nexus 6. Quelli appartenenti a questa serie sono tra i più realistici, forti e longevi androidi (hanno ben quattro anni di autonomia) creati dalla Tyrell Corporation, e usati come lavoratori nelle colonie extramondo. Ne sono fuggiti sei, ma sulla Terra riescono a tornare solo in tre, capitanati dal pericolosissimo Roy Batty (Rutger Hauer): Leon e Roy, appunto, e Pris (Daryl Hannah).

Richiamato all’ordine dal dottor Eldon Tyrell, il capo della Tyrell Corporation, Deckard si ritrova costretto a “ritirare” (uccidere) questi tre androidi prima che facciano altri danni in giro per la città. Per mostrare i passi in avanti fatti dalla Tyrell Corporation, Deckard viene invitato a esaminare la segretaria di Eldon, la bellissima e composta Rachael (Sean Young), affinché egli possa verificare se si tratti di un’umana o un androide. Una volta compreso l’ovvio, Deckard decide suo malgrado di accettare la missione. Non c’è nessuno, tra gli agenti come lui, più adatto per un compito così difficile.

Comincia così una lunga indagine alla ricerca dei tre androidi, che porta Deckard nei meandri più bui della città e della mente dei replicanti, fino al confronto finale con quello che, pur essendo un androide, si rivela più umano di chi lo è davvero.

Blade Runner è uno di quei film destinato a rimanere per sempre tra i capolavori imprescindibili del cinema e del suo genere, sempre meno diffuso nell’industria cinematografica a causa della fortissima diffusione di pellicole dai ritmi più incalzanti e tematicamente meno profondi. Tratto dal capolavoro letterario della fantascienza distopica Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick, padre della distopia letteraria, Blade Runner è a tutti gli effetti il perfetto rappresentante del genere neo-noir. Non solo fantascienza e distopia, ma una vera e propria evoluzione naturale del più comune noir imperante tra gli anni ’30 e ’40. I meccanismi rimangono simili: un uomo solo che si ritrova coinvolto in una situazione pericolosa, la presenza di un’ammaliante donna che lo trascina involontariamente verso una rovina già annunciata, le tinte cupe di un mondo alla deriva dove uomini e donne si muovono nell’ombra, capaci di far del male senza rimorso alcuno. Per concludere, un finale rivelatorio che fa riconsiderare allo spettatore la natura stessa dell’essere umano.

Philip K. Dick

Ciò che contraddistingue il neo-noir, soprattutto in questo caso, è l’ambientazione futuristica. Forte della possibilità di mettere in mostra elementi caratteristici grazie al colore, Blade Runner non ci mostra solo ombre, ma anche le abbacinanti luci al neon delle insegne dei palazzi, le pubblicità che torreggiano sulle facciate, l’enorme volto onnipresente di una donna asiatica con un sorriso perenne che parla e a tratti canta, riempiendo l’aria con la sua candida voce. Tutti elementi di cui, a causa del bianco e nero, in un noir classico non potremmo godere.

La Los Angeles del 2019 è lo specchio di un futuro non troppo difficile da immaginare, in cui la razza umana si è ridotta a vivere in enormi città fatte di gente proveniente da ogni parte del mondo ed estrazione sociale, ma facendo dell’individualità il proprio punto di forza. Non esiste solidarietà tra gli uomini e le donne, solo un amplesso di emozioni e sensazioni asettiche che tentano malamente di adattarsi a un mondo che, a sua volta, cerca di mantenere comunque dei meccanismi paradossalmente analogici. Poiché si tratta di un film del 1982, tratto a sua volta da un libro scritto nel 1962, in cui il futuro aveva tutto un altro aspetto nell’immaginario collettivo – per Dick era chiaro che nel 2019, a distanza di quasi sessant’anni, le macchine avrebbero volato –, la distopia cozza per forza di cose con oggetti che in un immaginario del genere non dovrebbero più esistere: telefoni a gettoni, computer con sistemi operativi oggi obsoleti, vestiti e acconciature che, per quanto tentino di imitare una moda  cyberpunk, restano specchio di un periodo sicuramente antecedente al nostro 2019. Le stesse pistole d’ordinanza e le armi in generale sparano ancora proiettili e non raggi laser come invece, qualche anno dopo, Star Wars aveva provato a immaginare. Ma quella era una “galassia lontana lontana”. In Blade Runner sembra che il futuro giochi costantemente a un eterno tiro alla fune tra qualcosa che potrebbe essere, nell’elettricità dei circuiti degli androidi, e ciò che è stato, nel suo mostrare un involucro arrugginito.

Un altro elemento caratteristico del noir è la crisi esistenziale del protagonista. Il film mantiene questo meccanismo, ma lo estende anche agli altri personaggi. Da un lato i tre replicanti che, consapevoli di essere degli androidi, vorrebbero vivere tanto quanto gli esseri umani; dall’altro la presa di coscienza di Rachael che, una volta compreso di essere un androide, non cerca l’immortalità, ma un motivo per continuare a provare dei sentimenti che, per quanto possano essere sintetici, sono comunque reali. Così come anche i suoi ricordi, innestati nel momento della sua fabbricazione, dovrebbero esserlo. È Deckard, a pochi minuti dall’inizio del film, a svelare alla donna la sua vera natura ed è lo stesso Deckard che si ritrova, poi, a innamorarsene e prendersene cura nel momento in cui si paventa la minaccia che anche lei potrebbe rientrare nella lista degli androidi da “ritirare”.

Più che in altri film simili, Blade Runner è innestato da simboli di diversa natura che vengono fatti passare per dei semplici vizi, delle manie, dei tic, ma che alla fine tentano di suggerire allo spettatore che ciò che sta osservando potrebbe non essere reale. Non nel modo in cui lo si intende normalmente: se sintetici sono i personaggi di questa storia, dopotutto, perché non dovrebbero esserlo anche gli origami lasciati in giro dall’agente Gaff? E se fossero sintetici, elettrici, anche i sogni? Dopotutto anche gli androidi, una volta viste «di cose che gli umani non possono immaginare», possono sognare. E desiderare un’esistenza normale, senza la condanna di una vita limitata, come se fossero pile elettriche destinate a scaricarsi prima di finire tra gli scarti.

In questo fu maestro Dick, e Ridley Scott è stato altrettanto bravo a nascondere un indizio, che poi forse non è nemmeno tanto nascosto. Basta stare molto attenti per coglierlo. O forse bisogna essere degli androidi?

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Antonio Messina

È nato a Catania il 2 gennaio del 1993. Ha frequentato il Liceo Scientifico “Leonardo” di Giarre. Dopo il diploma segue due anni di Lingue e Culture Europee e Orientali a Catania, ma lascia per dedicarsi completamente alla stesura del suo primo romanzo, Le Ere dell’Eden – Genesi, una rilettura in chiave sci-fi delle origini di Dio, pubblicato, poi, nel 2015 per la casa editrice Carthago.

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