14 Gennaio 2023

Pandora, tredici anni dopo. “Avatar: La Via dell’Acqua”, regia di James Cameron

di Antonio Messina

Dall’uscita del primo Avatar sono passati ben tredici anni. Il film di James Cameron fu una grossa novità a livello tecnico: portava con sé la tecnologia del 3D e apriva una nuova frontiera nello sviluppo della computer grafica e degli effetti speciali. 

Il secondo capitolo di quello che è già diventato un franchise a tutti gli effetti – ancor prima dell’uscita degli ormai annunciati sequel – arriva a distanza di anni; anni in cui il cinema ha compiuto grandi passi avanti e il modo di concepire la sala cinematografica ha subito notevoli cambiamenti, soprattutto dopo l’avvento del Covid e delle piattaforme di streaming.

Ma facciamo un passo indietro: nonostante vi abbiamo già parlato di Avatar in passato, non è un male ripercorrere brevemente le vicende e ricordare dove eravamo rimasti.

La storia ci portava su Pandora, pianeta molto simile alla Terra ma popolato da una civiltà aliena con una cultura e delle usanze prevalentemente collegate a un rapporto molto stretto con la natura. Quando gli esseri umani arrivano su Pandora, si servono di una complessa tecnologia che permette loro di trasferire le proprie menti all’interno di corpi artificiali che riproducono le fattezze degli alieni, permettendogli così di interagire con i nativi con più facilità. Certo, l’obiettivo reale non ha nulla a che vedere con la familiarizzazione tra due razze: Pandora, e in particolare il luogo in cui il clan degli Omaticaya si è stabilito da tempo immemore, è una vera e propria miniera a cielo aperto che contiene un preziosissimo metallo sul quale gli umani vogliono mettere le mani a qualunque costo. 

Toccherà a Jake Sully entrare a far parte del clan alieno e convincerlo a spostarsi, prima che il generale Miles Quaritch, un vero e proprio terrorista, un assassino disposto a tutto pur di portare a termine la missione, li uccida tutti. 

Qualunque sforzo si rivela inutile e l’alleanza tra Jake e gli Omaticaya, suggellata anche dall’amore tra lui e la principessa Neytiri, non fa che inasprire la situazione. L’unica soluzione è affrontare il generale e ucciderlo per porre fine alla sanguinolenta sciarada messa in atto dagli esseri umani.

Passano tredici anni per noi spettatori e altrettanti, nel film, per il clan degli Omatikaya. Jake e Neytiri hanno formato una numerosa famiglia composta da cinque figli, tre biologici e due adottivi. Uno di loro, Spider, è un umano rimasto su Pandora quando gli invasori sono stati cacciati dal pianeta, troppo piccolo per affrontare il viaggio di ritorno dentro una capsula criogenica. Dell’altra figlia adottiva, Kiri, le origini sono (ancora) in parte ignote. 

Durante questo arco di tempo il clan ha vissuto in pace, fin quando gli umani non tornano su Pandora, pronti a minacciare nuovamente gli Omaticaya e, soprattutto, il ribelle, il traditore della propria razza: Jake Sully. 

Per Jake e Neytiri l’unica soluzione possibile è andare via dalla foresta: mantenere la promessa di proteggere il clan significa prendere ancora una volta la decisione più radicale. La famiglia si dirige così a sud, approdando su un agglomerato di isole in cui vivono in pace i Metkayina.

La sensazione è che Avatar: La Via dell’Acqua sia in parte un calco del primo capitolo. Ma se nel film uscito nel 2009 le prove per entrare a far parte degli Omatikaya erano rivolte solamente al protagonista, in questo secondo capitolo sono estese a tutti i componenti della sua famiglia. 

I Metkayina, rispetto al clan della foresta, sono differenti non solo per le usanze e le credenze, ma anche fisicamente: essendo un popolo che vive circondato dal mare sono in grado di respirare sott’acqua, le loro braccia e le loro gambe sono palmate e molto più forti, la loro pelle ha un colorito più chiaro e i loro tratti richiamano molto quelli di un anfibio. 

Gli animali che popolano il mare, poi, sono molto differenti da quelli della foresta e la famiglia di Jake dovrà imparare a entrare in sintonia con loro, così come accadeva nel primo film con le creature del cielo.

I temi affrontati nella pellicola, ancora una volta, sono di stampo ecologico ed etnico – la diversità dell’altro, la difficoltà di farsi accettare da un clan differente nonostante si appartenga alla stessa razza –, ma stavolta sembra si faccia leva maggiormente sul rispetto delle creature, degli animali: i Metkayina hanno, infatti, un legame molto forte con i Tulkun, degli enormi cetacei dalla pelle corazzata e gli occhioni dolci. 

Cameron dedica intere scene a queste creature, che per l’economia della trama, soprattutto durante il terzo atto, avranno un ruolo importantissimo e una parte in particolare ricorda in tutto e per tutto la caccia alle balene praticata in alcune parti del mondo. Non è solo una sensazione: Cameron imbastisce una scena di quasi dieci minuti in cui vediamo tutte le operazioni necessarie per catturare e uccidere un animale così grosso, e più prosegue più la sensazione che ciò che stiamo vedendo sia sbagliato diventa pressante. 

Il finale, stavolta, si chiude con un inatteso colpo di scena, che lascia aperta la storia degli Omaticaya.

Un altro aspetto che Cameron sembra voler approfondire ancor più che nel primo film è il legame spirituale tra la Grande Madre, lo spirito di Pandora, e i Na’Vi. Un personaggio, in particolare, esalta questo legame che nel primo sembrava solo accennato, o comunque  trattato diversamente, lasciando a sua volta intendere che più andremo avanti con i film più questo sarà un elemento imprescindibile per la crescita degli Omaticaya e di tutti i clan, nonché per affrontare qualunque minaccia. 

I film, sì, perché Cameron ha apertamente dichiarato di avere in cantiere altri tre capitoli dedicati a Pandora e ai Na’Vi; il quinto, a quanto pare, dovrebbe addirittura essere ambientato sulla Terra, il nostro pianeta, che nel film viene descritto come un luogo alla deriva, quasi del tutto perduto.

Come oggi direbbe qualcuno, La serie di Avatar è come un porno: una volta che ne hai visto uno, sai già cosa aspettarti dagli altri. Cosa cambia, allora, da un film all’altro? Le tempistiche di produzione, sotto questo punto di vista, sono state fondamentali: Cameron ha impiegato ben tredici anni a darci una continuazione delle avventure dei Na’Vi, ma di certo non per la trama lineare e prevedibile – già ce lo immaginiamo, il regista, a scrivere tra un caffè e l’altro la storia semplicemente ampliando il copione del primo film –, quanto più per la realizzazione tecnica

Come il film del 2009, anche questo regala allo spettatore degli ambienti realizzati con le più recenti tecnologie in termini di effetti speciali e rendering. Rispetto al primo film, i personaggi sembrano ancora più realistici e le loro espressioni facciali credibilissime. 

Gli animali, le navi e i vari velivoli, i luoghi, i rifugi, le piante e l’acqua – soprattutto l’acqua, per ovvie ragioni! – sono ricchi di dettagli di cui nel 2009 non avremmo potuto godere. La sensazione che per la realizzazione di alcune scene, che durano giusto un paio di minuti, ci siano voluti mesi interi, se non un paio di anni, non è del tutto sbagliata e questo giustificherebbe l’abissale differenza fra le tempistiche dei due film.

Pandora risplende di luce propria, e non solo grazie all’acqua che riflette la stella che lo illumina, ma soprattutto grazie alla ricchezza di forme di vita che assumono forme ben riconoscibili e al contempo nuove, rielaborate. I Tulkan, in particolar modo, dominano la scena non solo a livello di trama, ma anche sul piano estetico. 

L’obiettivo chiarissimo del film, qui, è quello di rendere lo spettatore ancora una volta parte integrante di Pandora e, così come avvenne nel 2009, ci riesce perfettamente. Questo, lo dobbiamo ammettere, anche grazie a diverse scene che citano diversi film di Cameron e non.

Tuttavia, se il primo film ha contribuito a cambiare il modo di concepire la CGI e il modo di fare cinema di genere fantascientifico, dubitiamo che Avatar: La Via dell’Acqua potrà avere lo stesso effetto. Soprattutto, non crediamo che il successo sarà lo stesso come, invece, Cameron pronostica. Perché?

Dobbiamo considerare due elementi fondamentali: il cambiamento radicale nel concepire la sala cinematografica e lo scarto temporale tra i due film. 

Se da un lato abbiamo avuto una pandemia che ha incrementato la visione casalinga dei film, svuotando le sale, dall’altro lato c’è da considerare che Avatar: La Via dell’Acqua arriva a quasi quindici anni di distanza, un tempo abbastanza lungo da permettere al cinema di sfornare qualunque tipo di pellicola tecnologicamente avanzata – non dimentichiamo il dominio della Disney con il Marvel Cinematic Universe e i film di Nolan –, ma non solo: dopo aver visto il primo film e dopo vari annunci e rinvii, gli spettatori hanno perso il cosiddetto hype, cioè l’interesse in un sequel che sembra arrivare un po’ fuori tempo. Per il terzo capitolo, almeno, pare che non dovremmo attendere più di due anni.

Una nota veramente negativa, al di là della trama, è la durata eccessiva del film: se le tre ore e un quarto sono sufficienti a mostrare tutto quello che è stato possibile realizzare con le nuove tecnologie, esse non sono giustificate da una trama che sa di già visto. Nonostante ciò, Avatar: La Via dell’Acqua è un ottimo prodotto cinematografico, perfetto per le famiglie e per chi ha voglia di (ri)scoprire Pandora e la sua fauna aliena. Ma se il tono dei prossimi film sarà lo stesso, forse è il caso che Cameron cominci a concentrarsi più sulla scrittura di una storia originale che sulla realizzazione tecnica.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Antonio Messina

È nato a Catania il 2 gennaio del 1993. Ha frequentato il Liceo Scientifico “Leonardo” di Giarre. Dopo il diploma segue due anni di Lingue e Culture Europee e Orientali a Catania, ma lascia per dedicarsi completamente alla stesura del suo primo romanzo, Le Ere dell’Eden – Genesi, una rilettura in chiave sci-fi delle origini di Dio, pubblicato, poi, nel 2015 per la casa editrice Carthago.

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