8 Aprile 2023

Come ti (s)piego il multiverso. “Everything everywhere all at once”, regia di Daniel Scheinert e Dan Kwan

di Antonio Messina

Di tanto in tanto Hollywood – quando da un lato ci sono delle menti creative e dall’altro dei produttori che sanno riconoscere il loro potenziale – è in grado di tirare fuori dei veri e propri gioiellini che poi, con sorpresa di tutti, riescono ad avere un grande successo.

Il caso di Everything everywhere all at once – al quale ci riferiremo con la sigla eeaao per comodità – è quanto mai emblematico, perché nessuno probabilmente avrebbe scommesso una lira sulla sua vittoria alla notte degli Oscar. Infatti, parliamo di un genere di film che normalmente si rivolge a un pubblico più di nicchia, che riesce a vedere il significato nascosto dietro elementi sapientemente montati come un’apparente accozzaglia di frivolezze.

La storia di eeaao è quella di una coppia cinese che, trasferitasi da poco negli Stati Uniti, dove gestisce una lavanderia a gettoni, si trova sull’orlo di una crisi sia finanziaria che relazionale: un matrimonio che sta per giungere al termine e una figlia fidanzata con una ragazza non aiutano la protagonista, Evelyn (Michelle Yeoh), a gestire tutte le responsabilità che ricadono sulle sue spalle. Il marito, poi, Waymond (Ke Huy Quan), sembra prendere tutto con troppa leggerezza. Quando la coppia deve fare i conti con la verifica annuale dei conti dell’attività, tramite l’ispettrice dell’IRS Deirdre Beaubeirdre (Jamie Lee Curtis), la storia prende una piega completamente inattesa: Evelyn conosce una versione differente del proprio marito che si fa chiamare Alpha-Waymond, proveniente dall’Alpha-Verso, ovvero il primo universo parallelo in cui si è scoperta la possibilità di entrare in contatto con molteplici versioni di sé in altri universi. L’uomo le spiega che lei è “la prescelta” e quindi l’unica che può affrontare il malvagio Jobu Tupaki, un’entità che sta mettendo a repentaglio il multiverso e tutto ciò che ne fa parte.

La scena di questo primo incontro tra i due e lo scontro successivo, caratterizzato da una serie di maldestri malintesi a dir poco esilaranti, ci ha ricordato fin da subito The Matrix (1999): il modo in cui Evelyn viene avvicinata dall’Alpha-Waymond per fuggire dall’ufficio senza essere notata è una vera e propria parodia della scena in cui Neo, contattato da Morpheus, riceve indicazioni precise per fuggire dalle grinfie degli agenti. Eppure, se entrambe le scene finiscono male, in eeaao ogni cosa assume le caratteristiche di un vero e proprio delirio, in cui arti marziali e armi improbabili entrano in scena, dando perfino un nuovo aspetto al classico kung-fu. Le similitudini con Matrix, quindi, non mancano.

Quello che segue, per Evelyn, è un viaggio dentro e fuori di sé alla scoperta di nuovi aspetti del suo io, un viaggio che la porterà a nuove vette di consapevolezza, e oltre non vi diremo: il film va visto, preferibilmente in sala se ne avete l’occasione. Riguardo ciò che esso vuole davvero comunicare, invece, il percorso da seguire deve essere totalmente personale e interiore.

Dal punto di vista tecnico, eeaao è un orgasmo continuo di colori e movimenti, con un montaggio sorprendente e ricco di colpi di scena, capaci di stupire oltremodo lo spettatore, incollandolo alla sedia. E se al principio la storia appare poco chiara, l’azione riesce poi a catturare l’attenzione per tutte le due ore e venti consecutive, senza mai stancare. Ogni combattimento ha dei momenti particolari e cangianti, complicandosi gradualmente ogni volta che Evelyn apprende nuove capacità connettendosi alle varie versioni di sé tramite il “salto-verso”: inizialmente tutto sembra casuale, ma man mano che il film procede Evelyn si scatena in una vera e propria danza, che di riflesso coinvolge gli altri universi.

Eeaao esce in sala dopo Doctor Strange in the Multiverse of Madness. I due film parlano di multiversi e dell’incontro con più versioni di sé, ma per quanto la Marvel si sia fino ad ora dimenata tra serie tv e film per spiegarne il funzionamento, eeaao riesce, nelle sue due ore e venti, a essere molto meno prolisso e più chiaro: la coesistenza di molteplici universi permette a un qualunque individuo di un universo qualsiasi di entrare mentalmente in contatto con l’altro sé, assorbendone abilità e cultura. Non c’è mai un contatto fisico vero e proprio, a eccezione delle interazioni con Jobu Tupaki. I due registi, così, riescono sapientemente a mettere tutti i pezzi al loro posto nel momento in cui ogni cosa confluisce nello stesso luogo e in una sola volta (everything everywhere all at once, appunto), mostrandoci universi normalissimi e altri completamente inimmaginabili e fuori di testa che, nella loro stranezza, hanno un proprio senso di esistere e sono perfettamente contestualizzati. Il multiverso è complesso, ma allo stesso tempo semplice: noi siamo ovunque nello stesso momento e l’importante è esserci.

Il significato più profondo del film, forse, alla fine si rivela essere proprio questo: una ricerca del senso della vita che si racchiude nell’esserci quando ce n’è veramente la necessità, mettendo da parte tutto; lasciarsi coinvolgere e accettare i cambiamenti così come arrivano, aprendo la mente fino a percepire noi stessi come parte di un universo fatto di scelte possibili, che avremmo potuto abbracciare o meno. Il non poterci sottrarre alla realtà in cui ci troviamo, frutto di ogni singolo passo che ha generato altri multiversi in cui abbiamo preso strade opposte, non deve fermarci e ingabbiarci, ma deve, al contrario, farci capire quanto siamo fortunati nell’avere accanto le persone che proprio quelle particolari scelte hanno portato nella nostra vita. Amandole e accettandole così come sono, accogliendo anche quelle che sono state le loro, di decisioni, e dove esse le hanno portate. Chi siamo noi, alla fine, per giudicare cosa è giusto o sbagliato nella vita di una persona? L’invito a essere gentili con gli altri perché non sappiamo quali battaglie stanno affrontando probabilmente è vero, e il film non si vergogna di comunicarcelo con la sua complessa limpidezza e innocenza, con quelle frivolezze di cui parlavamo prima.

L’interpretazione degli attori è magistrale, sia nella recitazione verbale che in quella fisica, ed è valsa a ognuno di loro un premio: per Michelle Yeoh si tratta del primo premio assegnato a un’attrice asiatica come miglior protagonista; Ke Huy Quan, che ha esordito nel primo Indiana Jones, nel 2023 si affaccia timido e commosso su un palco pieno di gente per l’Oscar ricevuto come miglior attore non protagonista, dedicandolo tra le lacrime alla madre. Jamie Lee Curtis, invece, si conquista l’Oscar come miglior attrice non protagonista, a sorpresa di molti. Infine i registi, Daniel Scheinert e Dan Kwan, ottengono il premio per la miglior regia e la miglior sceneggiatura, oltre che il premio per il miglior montaggio. Montaggio che ci ha colpito per la sua capacità di mostrare tutto quello che era necessario nello stesso momento tutto in una volta. E si arriva, infine, alla vittoria definitiva come miglior film dell’anno.

Era dai tempi di Roma (2018, Alfonso Cuarón) che non vedevamo un film premiato con così tanta sincerità e che fa uscire Hollywood da quegli stereotipi che la vedono spesso a produrre pellicole facilmente relegabili ai tipici blockbuster supereroistici, fatti solo di effetti speciali e con una trama pressoché piatta. Eeaao è, invece, molto più di questo e riesce a gestire tutti i suoi elementi in maniera fluida, con un timbro di amara ironia e sincero divertimento.

Non sappiamo se la A24 e i due registi continueranno a collaborare e se i neo-premiati saranno capaci di tirare fuori altre perle come questa, non possiamo prevedere il futuro e il multiverso è «un concetto di cui conosciamo molto poco». Quello che possiamo dire con certezza, però, è che siamo fortunati a esistere in un universo in cui è possibile vedere e rivedere un film come Everything everywhere all at once.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Antonio Messina

È nato a Catania il 2 gennaio del 1993. Ha frequentato il Liceo Scientifico “Leonardo” di Giarre. Dopo il diploma segue due anni di Lingue e Culture Europee e Orientali a Catania, ma lascia per dedicarsi completamente alla stesura del suo primo romanzo, Le Ere dell’Eden – Genesi, una rilettura in chiave sci-fi delle origini di Dio, pubblicato, poi, nel 2015 per la casa editrice Carthago.

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