2 Novembre 2023

Delitto al buio. “Assassinio a Venezia”, regia di Kenneth Branagh

di Antonio Messina

Il detective Hercule Poirot fa la sua prima apparizione nei romanzi della “signora del giallo” Agatha Christie, nel 1920, con il giallo Poirot a Styles Court. Il detective delle liste e dall’intuito sopraffino è stato nel tempo interpretato in molteplici modi e da diversi attori attraverso tutti i media dell’intrattenimento: dalle serie tv (David Suchet), ai film (Austin Trevor, Alfred Molina e Kenneth Branagh) e perfino ai videogiochi.

Il personaggio ritorna alla ribalta proprio grazie agli ultimi tre film girati e interpretati da Kenneth Branagh: Assassinio sull’Orient Express (2017), Assassinio sul Nilo (2020) e,infine, Assassinio a Venezia (2023), tratto da uno dei racconti meno conosciuti della scrittrice, La strage degli innocenti.

La storia di questo terzo capitolo, ambientato nella città di Venezia, ci mette davanti un Poirot stranamente solitario, quasi in ritiro spirituale, con una guardia del corpo (Riccardo Scamarcio nell’improbabile ruolo di Vitale Portfoglio) ad assicurarsi che nessuno lo disturbi. Il detective, per motivi non del tutto chiari, ha deciso di non dedicarsi più alla risoluzione dei casi che ostinatamente gli uomini e le donne che si presentano alla sua porta tentano di proporgli, tra delitti e misteriose sparizioni. Poirot è ancora l’uomo preciso e attento di un tempo, in particolare per quanto riguarda i propri piaceri personali, ma sembra aver perso completamente la voglia di cimentarsi nella risoluzione di misteri che una città come Venezia potrebbe nascondere nell’ombra delle sue calli.

A incuriosirlo, tuttavia, più per una conferma delle sue convinzioni che per un vero e proprio interesse personale, è la proposta che gli arriva da un’amica scrittrice che ha fatto fortuna ispirando il suo personaggio più celebre a Poirot stesso (che si tratti proprio di Agatha Christie?): la donna lo invita ad assistere a una seduta spiritica organizzata in un orfanotrofio dalla proprietaria dello stesso, nel tentativo di mettersi in contatto con la figlia morta un anno prima. Poirot, divertito, svela subito i trucchetti che si celano dietro la riuscita della seduta, prima ancora che questa venga portata a termine. E sarebbe tutto apparentemente risolto, se non fosse che quella notte stessa qualcuno perde misteriosamente la vita. Poirot, finalmente, trova un nuovo caso che lo coinvolge e decide di mettersi all’opera come solo lui sa fare: impedendo a tutti i presenti di andare via dal luogo del delitto finché il caso non verrà risolto.

Con queste premesse prende il via un film che si distingue molto dai due precedenti capitoli: l’ambientazione dell’orfanotrofio, i rumori, le luci soffuse e l’alone di mistero che mette in dubbio le convinzioni dello stesso detective consegnano allo spettatore un film dalle tinte più cupe a tratti tendenti all’horror. E Poirot, probabilmente anche a causa del suo essersi leggermente arrugginito durante il lungo periodo di pausa, sembra venire travolto dalla stessa angoscia che il film tenta di trasmettere allo spettatore, lasciandosi spesso cogliere di sorpresa da cose che per lui dovrebbero essere ormai ovvie, ma sembrano non esserlo più.

I personaggi della vicenda sono, stavolta, personalità più tormentate rispetto ai sospettati dei casi precedenti: un dottore in preda allo stress post-traumatico in seguito all’esperienza bellica, una madre afflitta da una perdita inspiegabile, una domestica devota, un ragazzo che ha dovuto ricostruire la propria vita dopo la morte della figlia della padrona dell’orfanotrofio e altri ancora. Poirot stesso si ritrova spesso a dover fare i conti con i suoi demoni, dovendo ammettere di aver in qualche modo perso terreno. A spronarlo, la sua amica scrittrice, che tenta di riportarlo sempre alla realtà e a recuperare la lucidità che lo ha sempre contraddistinto. Come da tradizione, il film ci fa scivolare verso la risoluzione del caso con il classico colpo di scena. Stavolta, però, si tratta di un vero e proprio svisceramento delle personalità dei rispettivi sospettati, fino a un ulteriore disvelamento finale completamente inatteso.

Rispetto ai primi due, Branagh ci presenta un film meno avventuroso e più introspettivo; meno ironico e più ansiogeno, ma senza terrorizzare mai lo spettatore. Tecnicamente impeccabile la fotografia, che si sofferma sui dettagli, stavolta cercando di comunicare più con lo spettatore in sala che non con il detective protagonista, perché Poirot sembra essere adesso presente a sé stesso, adesso invece distratto da movimenti, rumori, voci e gesti che sembra percepire solo lui.

Con questa virata di tono, Branagh riesce a discostarsi leggermente dal meccanismo di indagine messo in piedi da Agatha Christie, e non dispiace vedere il detective immerso in un ambiente a lui poco familiare, lontano dalla luce del sole e dagli spazi aperti. Nonostante non venga spiegato il motivo per cui Poirot ha inizialmente deciso di abbandonare la sua attività di detective – e questa è una mancanza che avrebbe potuto benissimo essere contestualizzata, utile anche per riempire il minutaggio e raggiungere le due ore piene –, non dispiace vederlo in una difficoltà maggiore rispetto al passato. Allo spettatore non piace vedere un protagonista che riesce a raggiungere il proprio scopo senza dover affrontare qualche sfida in più, e ha bisogno di potersi immedesimare in un personaggio quanto più umano possibile per godere a pieno della storia e ritenersi appagato quando l’eroe raggiunge la meta finale.

Dopotutto, anche le personalità più sicure e ardite, le più convinte, sono portate a volte a trovarsi in difficoltà e a vacillare di fronte a cose che non possono essere spiegate in maniera completamente razionale, dovendo aprirsi alla possibilità che possa esserci qualcos’altro. Qualcosa che non sempre può essere identificato materialmente, che non sempre può essere smascherato come si fa con il colpevole.

Assassinio a Venezia ha comunque delle mancanze: dalla recitazione di Scamarcio, che come sempre sembra trovarsi fuori posto in queste occasioni, agli effetti speciali, fino alla già sottolineata mancanza di un contesto valido per giustificare il ritiro di Poirot. Nonostante questo, non siamo di fronte a un film poco riuscito o a un prodotto mediocre: l’ultima fatica di Branagh risulta in ogni caso un buon momento di intrattenimento sia per coloro che hanno familiarità con la saga – che siano i libri o i film – che per quelli che vi si approcciano per la prima volta. E va benissimo così, sperando nella produzione di un quarto film capace di sorprendere davvero.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Antonio Messina

È nato a Catania il 2 gennaio del 1993. Ha frequentato il Liceo Scientifico “Leonardo” di Giarre. Dopo il diploma segue due anni di Lingue e Culture Europee e Orientali a Catania, ma lascia per dedicarsi completamente alla stesura del suo primo romanzo, Le Ere dell’Eden – Genesi, una rilettura in chiave sci-fi delle origini di Dio, pubblicato, poi, nel 2015 per la casa editrice Carthago.

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