Dal momento del suo annuncio, ormai diversi anni fa, la realizzazione del live action di One Piece da parte di Netflix ha diviso la folta schiera di appassionati dell’opera monumentale creata dal mangaka Eiichiro Oda: da una parte quelli che erano già certi del disastro imminente, consapevoli non soltanto della bassa qualità dimostrata solitamente dalle trasposizioni di un prodotto originariamente cartaceo o animato, ma anche della difficoltà di rendere, in carne e ossa, un mondo estroso e originale; dall’altra parte, invece, una minoranza di appassionati di One Piece speranzosi che il prodotto di Netflix potesse rivelarsi non solo di qualità, ma anche un veicolo per raggiungere nuovi potenziali fan.
Nel corso dell’evento Tudum, organizzato a giugno in Brasile dalla piattaforma streaming per lanciare i nuovi prodotti, il primo impatto con One Piece non è stato pienamente positivo. Il teaser, infatti, è stato investito dalle critiche: set che sembravano attrazioni di un luna park a tema piratesco, CGI non proprio di alta qualità, attori che sembravano più che altro cosplayer…. L’uscita del trailer ufficiale a luglio ha però cambiato la musica. A parte alcuni elementi che continuavano a stonare, la qualità grafica e delle atmosfere sembrava decisamente migliorata. Anche scene già viste nel teaser avevano subito un ritocco deciso. Quel primo antipasto di giugno, che aveva solo titillato le papille gustative dei fan (disgustando parecchi di loro), era quasi interamente composto da scene pronte da mesi, che ancora non erano passate attraverso la rimaneggiatura. Mossa avventata di Netflix o scelta ponderata proprio per far crescere l’attesa grazie all’effettivo trailer? Probabilmente non lo sapremo mai.
Ma com’è davvero One Piece di Netflix?
Domanda alla quale è difficile rispondere in maniera netta, soprattutto per chi, come me, è un appassionato del prodotto, legge il manga da vent’anni, ricorda l’intreccio a menadito e conosce il destino di molti di quei personaggi protagonisti della prima stagione. L’arco narrativo che avvia le avventure di Luffy “Cappello di Paglia” in live action è lo stesso del manga e dell’anime e segue quel percorso orizzontale che porta alla composizione del nucleo base della ciurma protagonista. Conosciamo dunque lo spadaccino Roronoa Zoro, la ladra Nami, il cecchino bugiardo Usop e il cuoco Sanji. Il quintetto interagisce con naturalezza, si creano equilibri di base all’interno della ciurma e le prime rivalità, che diverranno uno dei siparietti comici della storia. Ma soprattutto scopriamo poco per volta cosa muove ogni singolo personaggio, i suoi sogni e le sue motivazioni e riviviamo il passato di ciascuno di essi attraverso i flashback, uno degli espedienti più amati dai fan del manga di Oda.
Attraverso questi salti indietro nel tempo, l’autore non soltanto ci racconta il trascorso dei personaggi, spesso drammatico, segnato da lutti, perdite o figure che ne hanno plasmato il carattere e il modo di fare, ma negli anni Oda ha gettato tantissima carne al fuoco riguardo i misteri che infittiscono la trama di One Piece, ormai prossimo ai 1.100 capitoli.
Nella serie prodotta da Netflix, i flashback sono presenti e, soprattutto, sono inseriti nella narrazione in maniera intelligente, mostrati poco per volta, gestiti con attenzione, collegando i vari frammenti a ciò che avviene nel presente.
Un grande dubbio riguardante la realizzazione di One Piece in live action riguardava la fedeltà dell’adattamento alla storia originale. Sarebbe stato impossibile riportare passo passo quanto avviene nel manga e nell’anime, e questa prima stagione, composta da 8 episodi, per un totale di meno di 8 ore di prodotto, comprime quasi 100 capitoli del manga e circa 45 episodi dell’anime. Tuttavia, non è stato un male, anzi. Luffy e compagni, nella storia originale, passano da un’isola all’altra affrontando il villain di turno, il tutto in maniera indipendente di volta in volta (almeno, nella prima saga è così), mentre Netflix ha proposto una versione differente e molto intrigante, con quegli stessi avversari, ma anche con una “minaccia” maggiore che si percepisce fin dai primi episodi e che porterà agli eventi che chiuderanno la prima stagione, riuscendo a intrecciare molto bene tutti i fili della trama. Vediamo, inoltre, un elemento spesso assente nel manga: la morte dei personaggi, qui utile per creare pathos ed empatia.
La scelta di articolare la trama in questa maniera ha reso il prodotto più verosimile e le atmosfere, comunque allegre e scanzonate per gran parte del tempo, sono pervase da una sensazione di maturità che può rendere appetibile la serie anche per un pubblico adulto. In più, altro elemento a favore, Netflix ha pensato bene di inserire un paio di scene che nel manga vengono solamente accennate, in grado di far saltare sul divano lo spettatore che le riconosce. Ci sono inoltre vari elementi che proiettano la narrazione verso il futuro dell’opera (in primis, gli avvisi di alcune taglie, riguardanti personaggi che entreranno in gioco solo dopo), nella speranza che il successo del live action sia sufficiente per proiettarsi verso le future stagioni.
Tolti questi elementi, arriviamo ai punti deboli. Era chiaro fin dall’origine che riprodurre un mondo complesso, variopinto, con personaggi che possiedono poteri incredibili, abitato da temibilissimi uomini-pesce, sarebbe stato difficile. Il timore di molti era che venisse fuori un prodotto ridicolo.
Infatti il manga di One Piece, che Oda iniziò a pubblicare su Weekly Shonen Jump nel luglio del 1997, è già di suo una baracconata (per citare Sommobuta, uno dei principali content creator italiani connessi all’universo di One Piece). La serie si caratterizza per i colori dei fondali, molto luminosi e quasi pastellati, i personaggi appariscenti, eccentrici e sopra le righe, le inquadrature che ripropongono le tavole più iconiche del manga; tutte scelte fatte per rendere più fumettistica possibile la serie. In 26 anni Oda ha generato almeno un migliaio di personaggi differenti, la maggior parte dei quali ben caratterizzati e distinguibili, dimostrando di essere uno dei più grandi character designer di sempre.
Proprio per queste caratteristiche peculiari dell’opera, la cura degli effetti speciali avrebbe sicuramente portato dei problemi, e in qualche caso la CGI appare poco convincente. L’utilizzo di ambienti bui ha permesso di limitare il problema, ma non sempre è stato efficace. Una scelta saggia, invece, è stata quella di far utilizzare al minimo i poteri speciali, che ben si è sposata con un prodotto che, come già detto, ha voluto trasmettere una parvenza di realismo. Come saggia, a mio avviso, è stata la decisione di usare il trucco prostetico e non una massiccia CGI per il design degli uomini-pesce. Uno sforzo che ha ripagato in parte, poiché se alcune maschere erano davvero ben fatte, altre sembravano pronte per partecipare a una festa di Halloween.
Si possono riscontrare almeno un paio di errori nella trama, prestando molta attenzione (io ne ho notati, appunto, due, ma potrebbero essercene altri). Infine, le scene d’azione, in qualche caso, sono troppo macchinose, con movimenti estremamente “finti”. Nel complesso però, sarebbe potuta andare molto peggio.
Chiusura con il botto: i punti di forza.
Oltre a quelli già citati in precedenza, la forza di One Piece in live action sono gli attori: mai casting fu più felice. Gli interpreti della ciurma di Cappello di Paglia (i Mugiwara in giapponese, gli Straw Hats in inglese, a scelta) sono stati perfetti, si sono calati nelle parti in maniera camaleontica. Iñaki Godoy, fin dalla prima apparizione pubblica all’indomani dell’assegnazione del ruolo, è parso un Luffy perfetto e così è stato: forse un pizzico più serio e maturo, ma era lui, sempre scemo, avventato e con un coraggio infinito. Così come Mackenyu Maeda nei panni di Zoro, il suo personaggio preferito fin da bambino, sguardo truce e risposta sagace sempre pronta. Jacob Romero Gibson e il suo Usop hanno forse avuto meno spazio del previsto, ma i momenti di gloria ci sono stati e l’attore giamaicano non ha sbagliato un colpo. Taz Skylar è stato una rivelazione: assunti i panni di Sanji, per interpretarlo al meglio ha affinato le sue abilità nelle arti marziali ma anche in cucina, e la sua interpretazione è stata da applausi. La palma per la miglior performance però andrebbe forse a Emily Rudd. Lei, che è cresciuta con un poster di Nami nella stanza, che ha sempre amato la navigatrice dai capelli rossi, che ha pianto da bambina leggendo le vicende del passato di Nami, ha infine avuto la possibilità di ESSERE Nami, di piangere con lei, e di far piangere noi.
Belle anche le soundtrack, in gran parte pezzi originali ma anche musiche ben note (come la primissima opening dell’anime, We are) seppur rielaborate.
In sostanza: One Piece di Netflix funziona. E anche tanto. Nonostante qualche difetto, si tratta di un prodotto creato da chi ama l’opera di Oda e desiderava renderle omaggio nel miglior modo possibile e si vede.
Adesso si attende il responso del pubblico, che almeno per ora pare apprezzare. Il gradimento sarà fondamentale per il futuro dell’opera e per sperare di vedere al più presto la seconda stagione, che, tra scrittura e lavorazione, avrà bisogno di parecchio tempo per poter essere portata a compimento. Chi ama e conosce One Piece da anni, non può non assorbire l’amorevole energia che trasuda da questi 8 episodi attesi da tempo, come il compimento di una profezia. Ma il vero punto interrogativo riguarda il pubblico che non ha mai letto il manga di Oda o visto l’anime prodotto da Toei Animation. Forse è lì che si gioca la partita per il futuro di questo live action. E in fondo, l’obiettivo principale era proprio quello di portare One Piecea quelle persone che non vi si erano mai approcciate. Resteremo dunque vigili, in attesa di salpare ancora al seguito della nave Going Merry alla ricerca del One Piece. Netflix permettendo.
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Nato a Reggio Calabria l’11 febbraio 1984, dopo una serie di cambi di rotta scolastici si diploma presso l’Istituto Tecnico per Geometri Pitagora di Siderno, nel 2003.
Amante della scrittura fin dalla tenera età, coniuga ad essa l’altra sua grande passione: lo sport.
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