Cercare la gioia come un rabdomante, un cane da tartufo, un disperato. O semplicemente come qualcuno che si accorge, a un tratto, che il sapere acquisito non ha più il sapore del mondo. Gioia quindi come un aprire gli occhi sulla realtà, come una pratica di presenza non è da meno di esercizi yoga o altro. Gianluigi Gherzi, nel suo Alfabeti della gioia, edito da AnimaMundi (2022), ci consegna un prontuario essenziale sull’argomento a partire da una lezione tanto basilare quanto ostica: la gioia bisogna impararla, come un alfabeto appunto, e perché ciò avvenga occorre essere piccoli, ritornare piccoli, bambini, creature minime esposte allo stupore.
La nota più difficile è la gioia,
quella che da più tempo abbiamo scordato
la parola più difficile da pronunciare
la più incompresa.
(p. 19)
Tuttavia, subito dopo il poeta chiosa:
Non provare a comandarla, la gioia
non è un dispositivo da attivare.
(ibidem)
Imparare la gioia non significa piegarla alla nostra volontà. Non è, la gioia, un telecomando o un «dispositivo» come smartphone e tablet che assecondano la nostra illusione di onnipotenza. Sembra una contraddizione, ma non lo è, perché ciò che importa è la nostra predisposizione a stare aperti al dono, alla grazia di attimi che portano una domanda o soltanto la misura del respiro che entra-esce dal corpo. Potremmo dire che il linguaggio della gioia è una coscienza di sé depurata dal rischio di vertigini dell’intelletto:
Rallenta il fiato
fino al momento in cui
dentro ogni respiro
verrà a trovarti un profumo.
[…]
Lascia che un fiore ti racconti
osserva
dietro ogni filo d’erba
un paesaggio
dietro ogni spigolo
un mondo.
(pp. 20-1)
Gherzi ci dà un libretto di istruzioni alla gioia, con tanto di consigli nel caso in cui riscontrassimo qualche “guasto”, qualche inconveniente lungo il percorso:
Quando ti prende il male
della vita storta
retrocedi,
lascia al tuo sguardo
un’altra possibilità
regala al tuo cuore
un mistero più profondo,
alle labbra
la parola preziosa
che
nomina le cose.
(p. 21)
È una condizione adamitica, quella della gioia, ovvero un ritorno all’atto fondativo della nominazione del mondo non ancora macchiato dal peccato del cinismo, dell’insoddisfazione che giunge al parossismo dell’ira quando la realtà non aderisce al nostro bisogno di controllo, non si lascia prendere dalle nostre, seppur legittime, proiezioni. Si tratta, se intendiamo bene i versi del poeta, di mettere a fuoco una partecipazione alla vita che non si accontenta di osservare lo spettacolo del mondo e, alla fine, applaudire o commentare amaramente il risultato. In una poesia Gherzi ci invita a seguire le tracce di Orfeo per scendere agli Inferi e recuperare la vita sottratta alla gioia e consegnata in pasto agli avvoltoi – e ce ne sono molti che si affacciano dagli schermi delle nostre connessioni giornaliere – della disillusione. Occorre «farle sentire la nostra presenza» (p. 24), alla vita-gioia. E presenza è l’opposto di tutto ciò che ci allontana dalla costruzione di «un alfabeto / pieno di tutti i nomi / della gioia» (p. 38), è «abitare il minuscolo, / il granello / la goccia d’acqua / […]. / Abitare Dio / in ogni centimetro, / abitare il pensiero / della formica e del ragno» (p. 43), presenza è una connessione che non ci isola dagli altri ma che ci ricorda che «esistere / è uno stato di contatto» (p. 42).
Si potrebbe a questo punto pensare che la gioia di cui parla Gherzi sia un’entità chimerica e forse un po’ naïf, un’intenzione di pura ingenuità che vuole disconoscere il male, il dolore, le incomprensioni del mondo umano. Ed è, in effetti, una tentazione in cui in molti incorrono, basti guardare ad esempio, per non andare troppo lontano rispetto alla questione principale, a certi interpreti dell’eredità francescana che finiscono per sminuire lo “scandalo” della letizia del santo assisano a vantaggio di una giullaresca bidimensionalità scollegata dalla vita. La poesia autenticamente francescana di Gianluigi Gherzi non rinnega il fatto che il pianto si tramuta in «rugiada / che saluta il mattino» (p. 52), ovvero nell’intonazione di una solidarietà (e qui viene in mente il Leopardi della Ginestra) che fa cantare tutte le ferite del nostro esserci:
Vorrei darti la mano,
quando tocca tornare a casa zoppicando
con le ginocchia di sangue,
essere di nuovo con te
per sentire i nostri urli
alle strade strette dei paesi
alle case deserte
che ti franano addosso
con te, dentro quella lacrima piccola
che si è fermata all’angolo dell’occhio
e non riesce più a scendere, ma brucia
con te, per portarti alla fontana,
per ascoltare il canto
l’unico possibile,
di quello che si muove e scorre
con te
dentro ogni rifiuto
per cantare insieme
la leggenda delle ferite.
(pp. 50-1)
Ecco, quello che per Tucidide era il senso storico, un’acquisizione perenne, o come si direbbe oggi un lifelong learning, negli Alfabeti della gioia viene declinato da Gherzi come auspicio a un nuovo modo di abitare il mondo in vista di un bene comune:
Ogni giorno imparare
apprendisti della vita
inesperti ed esposti.
(p. 62)
© Riproduzione riservata.
Il nostro giudizio
Pietro Russo
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