Un proscenio occupato solo da sedie sparse in modo apparentemente casuale si illumina alle 21:27. La voce del regista annuncia che lo spettacolo inizierà di lì a pochi minuti. Il buio e il silenzio avvolgono la platea e un cartello su cui campeggia la parola “Democrazia”, scritta gialla, su sfondo nero, cattura l’attenzione del pubblico. Gli attori fanno il loro ingresso e i costumi di scena, contemporanei e minimalisti, ci danno un’idea dei tipi umani che racconteranno questa storia. La classe operaia, capelli bianchi e tuta da lavoro, apre lo spettacolo e con un urlo imperativo dispone il militare, la pacifista, il metallaro dall’aria anarchica, il medico, la sex worker, il prete, il finanziere, la zelante professionista e il barbone sulla scena: «Seduti».
ATTO PRIMO
Così inizia il dialogo tra le parti, non più uno scontro di posizioni possibili, come in passato, bensì una disamina disillusa del problema di fondo: lo stato di salute di una nazione il cui stesso approccio al concetto di democrazia, rappresentato dal voto, è viziato, malato, claudicante. Come funziona il sistema elettorale in Italia? È un gioco, ci dicono, un gioco di numeri, di parti più o meno proporzionali, di stalli e ingovernabilità in caso di parità; un gioco il cui prezzo è la nostra stabilità come nazione e di conseguenza come individui. Dopo aver osservato tutte le degenerazioni avvenute nel passato e quelle possibili nel presente, il militare chiede cosa accadrebbe nel caso in cui vi fosse una bella, pacifica (e paradossale) dittatura di centro e la classe operaia, indignata, lascia il palco, mentre il medico distribuisce pastiglie per i maldipancia delle parti sociali.
Pillole di reddito, briciole, rimasugli di welfare che tengono a bada gli umori di una comunità suddivisa in tipi. Un paese che, portato in scena da dieci attori, ha calcato il palco del Centro Zō Culture Contemporanee.
Questo è l’incipit della prima di Sfracelli d’Italia, l’Italia s’è desta? di Nicola Costa, a cui abbiamo potuto assistere il 22 giugno, seguendo attentamente il susseguirsi di parole, semplici scritte su cartelli, che hanno tracciato l’eziologia del cancro di questo Paese. Una sceneggiatura che, se osservata e assorbita bene, individua in maniera lucida e finemente ironica lo stadio in cui potremmo collocare l’Italia se la osservassimo secondo la teoria dell’Anaciclosi. Siamo in un’oclocrazia solo apparente, verrebbe da dire, in cui il governo della massa è il governo dei peggiori e che meglio si può definire con un termine coniato più di recente da Eduardo Galeano: democratura.
Il testo, come abbiamo raccontato nel pezzo lancio, ha preso forma dalla penna del suo autore otto anni fa, ma risulta incredibilmente attuale, quasi cronachistico, perché, nella sua lucida visione, Nicola Costa individua, dissezionandole, le cause della deriva politica e sociale oscena in cui siamo immersi. Uno spazio storico in cui il governo non tiene più conto dell’interesse della polis, come etimologia e spirito originario della parola “politica” vorrebbero, bensì del singolo individuo, e solo di quello che è capace di governare gli stomaci e di ingannare i desideri delle masse.
La struttura dello spettacolo, con gli atti scanditi in tematiche ben visibili al pubblico per mezzo dei cartelli, unisce i pezzi di questo puzzle dissacrato e delirante chiamato Italia. Alla “Democrazia” seguono, infatti, “Gli indifferenti”, “I furbi e i fessi”, “La perversione” e “L’informazione”. Vediamoli uno per uno.
ATTO SECONDO
Sul tema degli indifferenti, caldo e attuale, vista l’affluenza (indecemente bassa) alle ultime elezioni, Brecht e Gramsci prendono vita sul palco grazie all’intensa interpretazione degli attori. Gli analfabeti politici del primo incontrano il disprezzo del secondo: «Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti».
È forse questo l’atto più mirato a scuotere la coscienza del pubblico. Perché non esiste dittatura in grado di ergersi senza l’aiuto di coloro che, già secondo Dante, appartengono all’Inferno, essendo essi stessi ragione di inferno collettivo: gli ignavi. Coloro-che-non-si-schierano e non si interessano. Quei singoli, facilmente divenuti massa pilotata nel e dal proprio silenzio, che per l’incapacità di comprendere che «L’apoliticità non esiste. Tutto è politica», per dirla con Thomas Mann, condannano anche coloro che lottano ogni giorno per una società migliore, più equa, a divenire vittime di un gioco di potere che premia, essenzialmente, chi sa barare meglio al gioco della corsa all’oro.
ATTO SECONDO E ATTO TERZO
In questo senso, la scena sfuma in modo naturale e si giunge al cartello che recita “I furbi e i fessi”, perché dei furbi, di coloro che trovano sempre un modo per raggirare un sistema di per sé già costruito per permettere scappatoie, è la Repubblica italiana. Questi sono figli e generatori di “Perversione”, di quel gioco di forza della politica, di cui viene sottolineata la fallocrazia, attraverso le parole prese dai giornali e da vecchie fonti storiografiche. Il potere è sesso e il sesso è potere. Le due cose sono inscindibili, l’equazione è pervasiva e lo dimostrano le citazioni precise e documentate di Mussolini e di Berlusconi, lontani (e neanche troppo) fra loro nel tempo, ma nient’affatto distanti nella loro cognizione della donna come oggetto, trofeo di vittoria dell’uomo forte.
Quanto segue è, a mio avviso, il punto di maggiore pathos dello spettacolo.
Gli attori indossano delle maschere bianche e si trasformano. A quattro zampe ringhiano, diventano cani del potere, legati a un “nano”, un uomo a caso, abbastanza furbo e perverso da tenere al guinzaglio la finanza, la magistratura e le forze dell’ordine. Il cuore, dunque, del sistema Italia. È a questo punto che il senso di cosa sia e di cosa comporti una democratura prende vita davanti agli occhi della platea: il potere è del più forte, di chi può usare la forza bruta, l’esecuzione, le armi. Il militare opprime ogni rivolta e ogni manifestazione, indifferentemente dalla causa della protesta, perché la protezione dell’ordine coincide con, e determina, la protezione dello status quo. Il popolo viene infantilizzato, ritenuto incapace di decidere per sé, di determinare cosa sia giusto per il proprio presente e futuro. E se qua è solo insito il riferimento alla repressione a colpi di manganellate da parte delle forze dell’ordine degli ultimi mesi, se è solo accennata la brutalità della polizia sugli studenti che protestano ogni giorno per la causa palestinese, diverrà palese nella scena successiva, perché Costa non lascia nulla al caso.
I nomi e i cognomi, i numeri, le citazioni dei giornali sono chiare e scandite limpidamente dagli attori e dalle attrici nel corso dello spettacolo. Dipingono il quadro a tinte fosche del sistema in cui siamo immersi e che concorriamo a comporre. Siamo «per sempre coinvolti», tutte e tutti, nessuno escluso.
ATTO QUARTO
Il discorso sullo smantellamento della scuola pubblica, anch’esso principio fondamentale di una larvata dittatura che «non ha bisogno della marcia su Roma» per affermarsi, trova l’ovazione del pubblico, scivolando verso l’ultimo grande tema affrontato da questa densissima pièce, che è quello dell’informazione. Anche in questo caso, lo spettacolo non ha peli sulla lingua e non teme di affermare una grande verità: che il concetto di imparzialità giornalistica cozza con la responsabilità etica che dovrebbe coinvolgere gli esperti dell’informazione. Proprio perché il discorso giornalistico è il solo, assieme alla scuola pubblica, capace di orientare positivamente le coscienze e di denunciare la corruzione del sistema politico.
Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. […] Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento!
Giuseppe Fava
La denuncia esplicita conclude lo spettacolo, che si schiera senza mezzi termini: per il riconoscimento dello Stato della Palestina, contro l’uso del denaro pubblico per le armi, per il rispetto dei diritti umani e per la pace, per essere davvero uno Stato che «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11 della Costituzione).
LA SQUADRA
Questi, i contenuti essenziali di Sfracelli d’Italia – l’Italia s’è desta? portati sul palco, in maniera intensa, credibile e profondamente sentita, dagli attori e dalle attrici del Laboratorio Accademico di Drammatizzazione Permanente del Centro Studi Teatro e Legalità di Nicola Costa: Orazio Calì, Daniele Caruso, Tiziana Cosentino, Tiziana D’Agosta, Daniele Di Martino, Filippo Giurbino, Alfio Mazzaglia, Leonardo Nicolosi, Marco Sambasile e Lavinia Scalzo.
Assistente alla regia: Irene Galvagno.
LO SPETTACOLO
Ho raccontato lo spettacolo in maniera più approfondita di quanto una recensione non richiederebbe per una ragione precisa: questa non è una pièce su cui possa ricadere un giudizio classico, in quanto non può essere limitato al gusto personale e all’osservazione della tecnica e della performance dei protagonisti in scena (comunque eccellente, dal mio punto di vista). È un testo che, anche quando non sia stato visto sul palco, merita comunque di essere conosciuto, seppur aneddoticamente, nella sua brutale capacità di sviscerare la realtà dei fatti. Il suo risvolto, profondamente politico, seppur apartitico, colpisce, schiaffeggia la sala, mostra come il soffitto di cristallo sia sempre più alto, oligarchico, destinato a masticare ogni remota possibilità di avere, a queste condizioni, una giustizia sociale e un decente confronto fra le diverse opinioni. La polarizzazione è (nuovamente e sempre più chiaramente) definita dalle barricate del potere: da un lato c’è chi lo esercita e ne abusa, dall’altro c’è chi lo subisce. Non esiste un confronto tra le parti sociali, esiste uno scontro continuo, devastante, annichilente tra governi (al plurale) e governati.
Nicola Costa e i suoi attori, che hanno contribuito all’aggiornamento del testo portato in scena sabato e domenica, sviscerano una verità incontrovertibile, che oltrepassa la logica dei bias cognitivi di ciascuno, in quanto ciò che viene recitato in scena compone un quadro semplicemente vero, concreto: la democrazia, la Repubblica, i principi che hanno animato la nascita di questi sistemi, stanno morendo sotto i nostri occhi. La giustizia, la pace, i diritti umani e civili si sbriciolano ogni giorno fra le nostre mani, lasciandoci impotenti, rabbiosi, depressi.
Nella chiusa della rappresentazione, la quarta parete viene distrutta. Gli attori e le attrici invadono la platea, invitando il pubblico a concludere lo spettacolo con una frase forte, ma essenzialmente condivisibile: «Siamo incazzati neri e questa politica di merda non l’accetteremo più!». Non so se uno spettacolo basti per risvegliarci dal torpore, per ridestare gli italiani dal sonno della ragione e dalla glorificazione dei mostri, ma un teatro che diviene piazza, aspirando a essere manifestazione politica e che affronta lucidamente il dolore di una nazione morente è sicuramente un inizio, è sicuramente qualcosa su cui vale la pena soffermarsi, riflettere, scrivere.
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Nata il 25 dicembre 1995, è cresciuta a Nuoro, nel cuore della Barbagia. Dopo aver frequentato il liceo classico Giorgio Asproni e dopo aver maturato una piccola esperienza giornalistica con la testata online Globalist, è partita per il Sud alla scoperta della Sicilia.
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