25 Giugno 2022

Halo

di Antonio Messina

In un futuro molto molto lontano dal nostro presente, precisamente nel 2552, la razza umana si è sparpagliata in lungo e in largo nell’Universo, ha sviluppato la tecnologia necessaria per utilizzare l’iperspazio, ha colonizzato pianeti, fondato civiltà su asteroidi grossi quanto la luna e, soprattutto, è entrata in contatto con numerose specie aliene. Una di queste è quella dei Covenant: un’antica confederazione di razze devota al cosiddetto Grande Viaggio, un percorso iniziato secoli addietro, che dovrebbe portarli alla riconquista di un luogo conosciuto come Halo, l’Anello, fondato da presunte divinità chiamate Precursori. Ma l’espansione della razza umana interferisce con il Grande Viaggio e i Covenant, già in conflitto con gli uomini, sono costretti a inasprire la guerra, quando Master Chief ritrova sul pianeta Madrigal un artefatto che potrebbe condurre direttamente all’Anello.

Halo (2022)

A questo punto non possiamo aggiungere molto altro della storia, poiché chi non ha mai avuto familiarità con la saga videoludica di Halo – estesasi fino ad ora tra libri, fumetti e cortometraggi – rischia di perdersi ciò che giace davvero in fondo alla figura di Master Chief e alla teogonia dei Covenant. Ci troviamo di fronte a un caso di adattamento televisivo che come al solito è stato costretto a cambiare le carte in tavola per essere un prodotto appetibile sia ai fan della saga sia a chi non ne conosce nemmeno vagamente la storia. Ci riesce? Non esattamente.

La prima stagione si svolge prima delle vicende di Halo: Combat Evolved (uscito nel 2001), presentandosi come una riscrittura del prequel postumo, Halo: Reach (2010). Essa ruota attorno a due assi principali: il primo è quello della ricerca di alcuni manufatti, con i quali Master Chief (Pablo Schreiber) sembra in qualche modo collegato; il secondo è l’avventura di Kwan Ha (Yerin Ha), che tenta di riprendere il controllo del proprio pianeta, Madrigal, caduto nelle perfide grinfie di Vinsher, chiamato a tenere sotto controllo le rivolte degli abitanti, in seguito all’attacco dei Covenant. Entrambi gli archi narrativi, purtroppo, non funzionano come dovrebbero. Se da un lato i nove episodi che compongono la prima stagione servono a introdurre (e non è una parola che scegliamo a caso) lo spettatore a quelle che sono le “meccaniche” della serie, dall’altro molti dei personaggi, a partire dallo stesso protagonista, vengono snaturati. Più di tutto, fin dall’inizio della serie, ha fatto discutere la scelta di mostrare il volto dell’eroe principale, Master Chief, causando una vera e propria insurrezione da parte dei fan. L’eroe è a capo di un gruppo speciale militare conosciuto come Spartan, con il nome in codice 117. Nella saga videoludica non toglie mai l’elmo, invece nella serie tv lo fa come se questo non dovesse avere un impatto negativo non solo all’interno della serie, ma soprattutto nelle reazioni degli spettatori. Dobbiamo pensare a Master Chief come a un simbolo, un’idea, un’icona di salvezza e libertà, senza che ci sia la necessità di dargli un volto e rischiando così di incorrere, oggi, in inutili polemiche.

Svelare il volto del protagonista ha avuto lo stesso impatto che avrebbero avuto i Daft Punk, se con l’uscita dell’album R.A.M. – Random Access Memories, si fossero tolti il casco di fronte a milioni di persone, mostrando il proprio volto. Improvvisamente avrebbero perso tutto il loro fascino. La loro musica sarebbe rimasta, certo, ma ciò che volevano comunicare non sarebbe stato più oggetto di conversazione, concentrando l’attenzione del mondo intero sulla loro identità e non su ciò che conta davvero: quello che hanno rappresentato per la musica elettronica e per la sua evoluzione. Per quanto gli autori possano dirci che questo gesto, a livello di sceneggiatura, sia stato soppesato e  ritenuto necessario, affinché lo spettatore potesse entrare in empatia coi sentimenti e le emozioni del personaggio, mostrare il volto di 117 è stato un palese errore. Qualcuno, semplicemente, ha deciso di non prendere troppo sul serio la questione, alleggerendo eccessivamente l’effetto che il protagonista avrebbe potuto avere sullo spettatore se al contrario fosse stato rispettato come figura e simbolo.

In tutto ciò, la storia di Kwan Ha non solo ha uno spazio ristretto nell’arco dei nove episodi, al punto tale non ha un impatto reale nella storia di Master Chief e nella guerra tra umani e Covenant. Il suo unico scopo, al momento, sembra essere quello di perseguire il tentativo di instaurare una ribellione. Purtroppo, però, si avverte la fortissima sensazione che la presenza di questo personaggio non faccia alcuna differenza. Il motivo, pensiamo, potrebbe risiedere nel minutaggio nettamente inferiore a quello di Master Chief  e su una scrittura quanto mai superficiale di quella che dovrebbe essere la controparte femminile di Master Chief. E il voler recuperare entrambe le cose con un solo lungo episodio non fa altro che confermare una scrittura e una costruzione raffazzonata di Kwan Ha. Sembra quasi che gli sceneggiatori, portando avanti le vicende di 117, a un certo punto si siano resi conto di aver lasciato indietro la ragazza, come se l’avessero dimenticata, decidendo di scrivere in fretta un episodio che avesse l’unica funzione di far recuperare a Kwan il terreno perso.

La serie, ovviamente, non è del tutto negativa: guardando con gli occhi di chi non ne sa nulla, i nove episodi in realtà funzionano alla perfezione. L’arco narrativo di Master Chief è ben strutturato, soprattutto raggiunge un ottimo livello di scrittura grazie alle parti in cui interagisce con Makee (Charlie Murphy), personaggio di grande impatto che, per quanto sia stato creato a posta per la serie, in questo caso davvero riesce a tenere il timone della narrazione insieme al protagonista e alla dottoressa Keyes (Natascha McElhoen). Non dobbiamo dimenticare anche l’importante ruolo di Cortana, l’intelligenza artificiale senziente che ci accompagna nel videogioco. Nella serie tv, per quanto i fan ne abbiano parlato negativamente ancor prima dell’uscita dei primi episodi, rispecchia la controparte videoludica, riuscendo ad essere un’ottima compagna di viaggio per il protagonista, una consigliera e, soprattutto, una figura più autonoma di quanto la sua natura lasci presagire. Gli effetti speciali sono ben combinati con le scene d’azione, e la riproduzione di Reach è anche meglio di quella vista nei videogiochi. I Covenant sono fedeli per atteggiamento e aspetto a quelli della saga videoludica, regalando così un moto di soddisfazione nei fan. Con la loro presenza, il cliffhanger con cui si chiude il nono episodio, nonostante dia la sensazione di essere nuovamente al punto di partenza, è un bel colpo di scena, che fa ben sperare per la seconda stagione. Una nota di merito va alla sigla, che richiama il tema principale del menu dei videogiochi e che i fan della saga conoscono benissimo. Una composizione musicale ritenuta, oggi, tra le più importanti e più belle mai scritte per un videogioco. Quasi un inno.

Possiamo concludere spezzando un’altra lancia a favore della serie: c’è una grossa differenza tra un videogioco e il suo adattamento, televisivo o cinematografico che sia. Ci viene in mente il film Doom del 2005, diretto da Andrzej Bartkowiak e con Karl Urban nei panni del protagonista. Nonostante sia stato uno scempio sotto moltissimi punti di vista, spesso la regia tentava di riprodurre lo storytelling del medium originario, mostrandoci le famose scene in soggettiva che lo hanno caratterizzato. Halo, anche se con meno frequenza, fa la stessa cosa. Purtroppo questo uso della macchina da presa non riesce a colmare la grande distanza che intercorre tra i due prodotti, causata dalla mancanza di interattività. E questo è il motivo per cui molto spesso i film o le serie tv tratti dai videogiochi non riescono mai davvero ad appagare chi conosce il prodotto originale: nel videogioco siamo noi i protagonisti, anche se dietro lo schermo. Tastiera o pad alla mano, siamo noi che camminiamo lungo le lande di Halo o nei terribili anfratti dell’inferno marziano; siamo noi che premiamo il grilletto, guidiamo i veicoli e i velivoli; siamo noi, soprattutto, che decidiamo per il protagonista, avendo un ruolo attivo a 360°. Il cortocircuito avviene quando l’attività dello spettatore si limita al semplice osservare le immagini scorrere sullo schermo, un ruolo passivo in cui si può semplicemente decidere se ciò che si vede sia bello o se invece sia il caso di inveire contro uno sceneggiatore invisibile per le scelte fatte, che sono venute meno alle promesse e alle sfide del prodotto originale.

Il media cinematografico e quello televisivo devono, per forza di cose, rivolgersi a un pubblico più vasto rispetto a quello dei videogiocatori. E lo spettatore cerca l’azione, il conflitto interiore, cerca una figura da odiare e una sulla quale fare affidamento, cerca soprattutto le emozioni e le interazioni amorose, perché ha bisogno di essere rassicurato sulla presenza di determinati meccanismi che, a livello antropologico, non possono cessare di esistere, nemmeno nel ventiseiesimo secolo. Tutte cose che possiamo tranquillamente accettare. C’è da mettersi, invece, il cuore in pace per il momento: l’interattività di cui parlavamo prima sarà molto ridotta, a meno che la tecnologia non faccia dei passi in avanti tali da permettere allo spettatore di interagire attivamente con la storia che sta seguendo.Anche se l’episodio speciale di Black Mirror, Bandersnatch, ci ha in qualche modo dimostrato che questa soluzione potrebbe già essere attuabile. Ma questa è tutta un’altra serie tv.

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Il nostro giudizio

Antonio Messina

È nato a Catania il 2 gennaio del 1993. Ha frequentato il Liceo Scientifico “Leonardo” di Giarre. Dopo il diploma segue due anni di Lingue e Culture Europee e Orientali a Catania, ma lascia per dedicarsi completamente alla stesura del suo primo romanzo, Le Ere dell’Eden – Genesi, una rilettura in chiave sci-fi delle origini di Dio, pubblicato, poi, nel 2015 per la casa editrice Carthago.

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