30 Giugno 2024

La perdita dell’innocenza ellenica. “Addio Anatolia” di Didò Sotirìu

di Daniele Di Martino

La tolleranza non ha mai provocato una guerra civile; l’intolleranza ha coperto la terra di massacri.

Voltaire, Trattato sulla tolleranza

La tolleranza dovrebbe essere una fase di passaggio. Dovrebbe portare al rispetto. Tollerare è offendere.

Goethe, Massime e riflessioni
Soldati greci vicino ad Afyonkarahisar il 29 agosto 1922

Da qualche tempo ho preso la consuetudine di aprire le mie recensioni con una citazione che possa incarnare il senso del libro di cui voglio parlare.
Questa volta sento la necessità di riportarne due, che solo apparentemente sono in antitesi. In realtà, credo che si completino a vicenda.
E insieme, a mio avviso,  sintetizzano perfettamente l’anima di questo romanzo storico. Perché la tolleranza, se resta tale a lungo senza maturare in rispetto, presto o tardi subisce uno strappo. La tolleranza è paragonabile a una diga capace di contenere l’odio che la diversità potrebbe generare. Ma quando qualcosa provoca una falla, anche piccola, in questo muro di contenimento, in breve tutto si sgretola, fino a liberare quel potenziale distruttivo che  travolge e distrugge ogni cosa.

Attacco greco

Addio Anatolia è un romanzo storico che ci narra della rottura improvvisa, violenta e inesorabile della fraterna convivenza tra le popolazioni turche, greche e armene in Anatolia (con un particolare focus sulle prime due). Popolazioni che, sebbene col tempo avevano sviluppato religioni, usi, costumi e tradizioni proprie, condividevano una storia comune. Una simbiosi che, dai tempi della Magna Grecia, si era dipanata fino al preludio della Prima guerra mondiale. Si passa  attraverso le vicende dell’Impero Romano d’Oriente e di quello Ottomano, che pur avendo le  loro contraddizioni e difetti congeniti, i quali hanno contribuito poi alla loro caduta, avevano un’anima cosmopolita e una tolleranza etnica e religiosa molto più forte di quanto la società moderna cerca di realizzare, spesso invano.

Il massacro di Chios, 11 aprile 1822, Eugène Delacroix, 1824

Le vicende si collocano agli inizi del Novecento, e l’autrice ci racconta della comunità di lingua greca ben radicata in parecchie città e villaggi dell’Anatolia, all’epoca cuore pulsante dell’Impero ottomano. Essa era formata da numerose famiglie che, sebbene integrate nella società multiculturale del periodo, si sentivano ancora fortemente legate al mondo ellenico e guardavano, quindi, alla Grecia come la loro vera patria, serbando nel cuore l’eterna speranza di ritornare un giorno a divenirne cittadini.
Il giovane Manolis Axiotis, insieme alla sua famiglia, ne è il perfetto esempio. Si tratta di contadini e allevatori del villaggio di Kirkinztès, proprietari da generazioni delle loro rigogliose terre, le stesse che il generoso altopiano anatolico offre in abbondanza a tutti i suoi abitanti.
Una famiglia formata, oltre che da Manolis stesso, da un’unica sorella e numerosi fratelli, dalla madre taciturna e remissiva, custode del focolare domestico, e dal padre, severo e instancabile lavoratore. Genitori che, pur nel loro essere burberi, crescono i figli nei principi di rispetto, tolleranza e fratellanza che caratterizzano questa società, dove pur in villaggi separati, greci, turchi e armeni vivono in armonia, condividendo le opere, il lavoro e il commercio.

Le donne souliotes, Ary Scheffer, 1827

Manolis, voce narrante del romanzo, conduce quindi un’adolescenza serena, avendo come unico progetto di vita quello di sposare una brava ragazza del suo villaggio e portare avanti la tradizione del duro lavoro familiare.
A infrangere bruscamente i suoi sogni irrompe però lo scoppio del primo conflitto mondiale, che lo vedrà coscritto nelle fila degli Amele Taburu, i temutissimi battaglioni di lavoro nei quali l’Impero ottomano relega i sudditi greci e armeni, ritenendoli non leali al sultano e ideologicamente non affidabili in battaglia. Qui Manolis farà le prime dolorose esperienze di rottura di quell’armonia antica, vivendo sulla sua pelle l’intolleranza che i turchi iniziano a maturare verso le altre comunità. Nonostante le sevizie, le torture e le esecuzioni riservate ai disertori, come tanti altri commilitoni tenta di sfuggire alla crudeltà dei battaglioni di lavoro, cogliendo ogni occasione per fuggire e tornare a casa. Vi riesce più volte, ma viene sistematicamente catturato e reintegrato negli Amele Taburu, pur riuscendo, tuttavia, a evitare i castighi più crudeli. In questo continuo andirivieni tra campagne e villaggi sarà testimone del massacro della popolazione greca per mano dei turchi, spinti da un odio  aizzato sempre di più dai vertici politici e militari ottomani.

Amele Taburu

Con la fine della Grande Guerra, grazie al trattato di Sevrès, che garantisce loro la Tracia occidentale e il protettorato di Smyrne, Manolis e tutti i greci dell’Asia Minore si lasciano ubriacare dalla Megali Idea, ovvero il sogno di restaurazione della Grecia bizantina, con il beneplacito degli Stati vittoriosi dell’Intesa (in particolare inglesi e francesi). È il momento tanto atteso, quello della riscossa e della vendetta.
I lutti subiti dalla famiglia e dai suoi compaesani vedono  Manolis inizialmente restio a tornare in guerra. Ma il richiamo della Patria, infine, ha la meglio ed egli si arruola nuovamente, stavolta per il Paese a cui sente di appartenere. Inoltre, deluso da un amore non corrisposto, chiede di essere spedito in prima linea.
Lì conoscerà Nikitas Drosakis, un disilluso studente di Creta, politicamente impegnato e quindi inviso al Partito popolare. Tra i due nascerà una forte amicizia, e il ragazzo sarà fondamentale per la maturazione di Manolis, al quale farà lentamente comprendere gli sporchi interessi che tanto il governo greco quanto quelli degli alleati perseguono, incuranti della sorte dei soldati al fronte.

Battaglia di Melouna

Durante l’avanzata per riprendersi le terre, i greci restituiscono ai turchi le sevizie e le violenze subite. Tuttavia, nei resti del morente Impero ottomano si inizia a far strada il movimento dei Giovani Turchi, i quali prenderanno il potere, sconfessando qualsiasi condizione di resa accettata dal sultano. I termini di Sevrès diventano dunque carta straccia, gli alleati europei si defilano e iniziano a guardare con favore al nuovo stato della mezzaluna: è l’inizio della guerra greco-turca (1919-1922). L’avanzata ellenica sembra proseguire, apparentemente inarrestabile, ma nel momento del massimo sforzo bellico, proprio a un passo dalla conquista di Ankara, avviene un rovesciamento della situazione politica di Atene. I vertici dell’esercito vengono sostituiti con ufficiali inetti e inesperti e la situazione militare si ribalta repentinamente.
I loro nemici, inoltre, sono guidati dal genio militare di Mustafa Kemal, al quale l’Assemblea nazionale turca nel 1934 conferirà il nome di Atatürk (che significa letteralmente “Padre dei turchi”), con cui sarebbe poi passato alla storia in qualità di eroe nazionale e futuro fondatore della moderna e laica Turchia.

I giovani turchi

Manolis, al pari dei suoi commilitoni impegnati nella prima linea del fronte bellico, passa in breve tempo da una forte esaltazione nazionalista alla disperazione per il tradimento dei generali, che conduce alla perdita della guerra. Sconfitto e tradito, il giovane ripara a Smyrne, dove assiste in prima persona al genocidio della numerosissima comunità greca e di quella armena, nella stessa antica città che era stata simbolo della cultura ellenica. Vede coi propri occhi l’incendio che la distrugge, rendendola un cumulo di macerie fumanti. Manolis vive, infine, l’umiliazione finale della ritirata di ogni soldato greco da tutta l’Anatolia, in quella che ancora oggi, nei libri di storia ellenici, viene ricordata come “la catastrofe dell’Asia Minore”. Un evento al tal punto drammatico, da essere in grado di segnare profondamente la moderna Grecia, il suo futuro politico e quello psicologico e sociale di almeno due generazioni.

Ataturk

Ma parlare dello sgretolamento di questo mondo e dei barbari eccidi provocati da entrambi gli schieramenti in modo imparziale, rappresentando in modo equidistante ed equanime tutti i punti di vista in gioco, è un’impresa titanica, oltre che emotivamente complessa. Soprattutto se a farlo è qualcuno che appartiene a una di quelle popolazioni. 

L’autrice, Didò Sotìriu, è stata infatti una giornalista e scrittrice greca nata e cresciuta proprio in quelle comunità dell’Asia Minore, la quale ha vissuto in prima persona la fuga dall’Anatolia insieme alla propria famiglia.

Nonostante questo, non manca di denunciare in modo equanime il fallimento di ogni forma di nazionalismo, puntando il dito anche verso la scellerata politica dei grandi Stati europei in Oriente, mossi dalla corruzione e dalla brama di mettere le mani sui giacimenti petroliferi.

Didò Sotiriu

Un romanzo, divenuto ormai un classico della letteratura greca, che narra soprattutto la perdita dell’innocenza della sua popolazione, insieme alla presa di coscienza dell’inettitudine dei vertici politici e militari che ha causato tale tragedia e, con essa, la fine di quel sogno, durato secoli, di poter riunire l’intera comunità greca sotto un unico Stato e di ritornare, così, ai fasti dei gloriosi tempi che furono.
Non ultimo, la scomparsa definitiva dell’ellenismo da quelle terre in cui era insediato da tremila anni.

Il massacro di Smirne

Un libro che ha il dono di parlare di pagine di storia drammatiche e violente, utilizzando uno stile avvincente e mai noioso. Una narrazione che non riporta solo la fredda cronaca delle vicende di Manolis, ma anche i piccoli aneddoti riguardanti i tanti personaggi di cui egli stesso si fa portavoce e che popolano la tradizione di quelle comunità, sembrando a tratti frutto della fantasia dell’autrice.
Aggiungo che, proprio per queste scelte narratologiche e per l’ambientazione geografica e storica, per larghi tratti mi è parso l’ideale seguito de Il Ponte sulla Drina, del premio Nobel Ivo Andric, in quanto rappresenta le stesse dinamiche di convivenza nei turbolenti Balcani da parte di serbi, austriaci e ottomani, e dei continui cambi al potere derivanti dalle numerose guerre, presentando anch’esso le vicende assurte a leggenda di alcuni personaggi che hanno popolato quelle terre dal 1500 fino allo scoppio della Prima guerra mondiale.
Ecco, la mia sensazione è che l’opera di Didò Sotirìu raccolga il testimone da quella di Ivo Andric, riprendendo il racconto laddove egli lo aveva interrotto. Si sposta  soltanto geograficamente un po’ più a Sud, continuando a trovare le stesse storie, le stesse speranze e le stesse tragedie. 

Ivo Andric

Un testo che ho apprezzato enormemente, per la sua capacità di narrare con pari naturalezza le vicende personali del protagonista e quelle storiche di un’intera popolazione. Molto utili sono state, infine, per una maggiore comprensione storica e linguistica, il glossario e la tavola cronologica degli eventi presenti in appendice.

Reshid Mehmed Pascià, incisione

A chi lo consiglio? A tutti. Tanto agli appassionati di storia come me, che vogliono approfondire eventi storici meno noti, quanto (e soprattutto) a coloro che snobbano la Storia pensando che si tratti di vicende passate che non ci riguardano più. Forse potrebbero capire che la Storia è un cerchio che si ripete periodicamente e non un insieme di casi isolati ormai lontani. Ed è uno dei pilastri fondamentali sul quale edificare un futuro più solidale e leggero per ognuno di noi, affinché quella di mescolarsi con persone di etnie, religioni, esperienze e filosofie di vita differenti dalle nostre, permettendo la contaminazione, e dunque l’arricchimento, possa diventare un’esigenza e un’urgenza di ognuno di noi.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Daniele Di Martino

In antitesi con la natura tecnica dei suoi studi e del lavoro svolto, si appassiona alla lettura di romanzi thriller, spionaggio e azione. Nel tempo amplia le proprie letture a molti altri generi, sviluppando in particolare una forte passione per saggi e romanzi di storia contemporanea, distopici e ucronici.

Leggi di più


Potrebbe interessarti: