24 Marzo 2024

La notte degli Oscar: fate conto che c’ero

di Anna Monosi

La strada che porta all’Inferno è lastricata di buone intenzioni.

E io ero armata di buone intenzioni fino ai denti, lo giuro. Volevo davvero restare sveglia fino a tardi per assistere all’ultimo, glorioso, eccitante «And the Oscar goes to…».

Sono arrivata al terzo, e poi ho ceduto alla seduttiva comodità del mio divano (d’altra parte era passata la mezzanotte e io ho passato gli anta).

L’epoca dello streaming non ha bisogno di eroi ed eroine. Ho visto la serata degli Oscar tutta intera il giorno dopo, su Raiplay: poco eroico, molto pratico.

A dirla tutta, ho voluto concedermi la personale rivalsa di un unico gesto ardimentoso: per tutta la giornata successiva non ho voluto sapere notizia alcuna che riguardasse l’evento. Nulla di nulla fino alla sera. Alle 20:30, armata di entusiasmo e popcorn, ho premuto il tasto play e la magia ha avuto inizio. O quasi.

Sullo schermo del mio salotto è apparso un tizio baffodotato mai visto prima che poi ho scoperto essere tale Alberto Matano, conosciutissimo dal pubblico di Raiuno. Sulla sua conduzione non posso esprimere giudizi caustici come mi ero ripromessa di fare (trovo che la presenza di almeno un giudizio caustico sia essenziale per la buona riuscita di un pezzo). Ma Matano non mi ha lasciato l’amaro in bocca, non mi ha lasciato nemmeno il dolce, non mi ha lasciato nulla

Un po’ banalotti anche i commenti degli ospiti in studio, tra cui Claudia Gerini, Ambra Angiolini, Stefania Sandrelli e Claudio Santamaria: nessuna perla di saggezza cinematografica ci è stata regalata dal fronte italico. 

Alberto Matano

Ma poco importa, perché le pellicole in concorso in questo 2024 sono state indubbiamente toccate da una «grazia di celluloide» che non si vedeva da tempo. Per lo meno non tutta insieme e in tale quantità. Nella devastante, afosa, drammatica estate del 2023, il ristoro ci è arrivato dal fenomeno Barbenheimer (o Oppenbarbie, o Barbieheimer o vattelappesca). Questa curiosa creatura bicefala ha letteralmente trascinato la gente al cinema. Finalmente! Prima per vedere Barbie di Greta Gerwig, una commedia fantasy sulla fashion doll più famosa del mondo in salsa femminista; poi per gustarsi Oppenheimer, l’epica e lunghissima fatica scritta e diretta da Christopher Nolan sull’ascesa e la caduta del fisico del progetto Manhattan. Due opere agli antipodi che sono diventate un fenomeno di costume, che hanno diviso e scatenato il solito tifo indiavolato dentro e fuori dai social. Due produzioni accomunate dal successo al botteghino e dalla candidatura agli Oscar come miglior film. La spunta Oppenheimer, che era candidato a quasi tutto e vince quasi tutto. Con grande merito, a dirla tutta. Vince anche Cillian Murphy come miglior attore protagonista; è sua la voce e suo il volto del celebre fisico statunitense «padre» della bomba atomica: afferra, raggiante, la statuetta e dedica la sua vittoria a coloro che operano, in qualunque modo, per la pace. Ottimo lavoro, Cillian!

Barbie resta a bocca asciutta. Va bene, non proprio a bocca asciutta, si aggiudica l’Oscar come miglior canzone What Was I Made For? di Billie Eilish. Poca roba per un film che qualche riconoscimento in più lo meritava. Sicuramente l’interpretazione di Margot Robbie valeva la nomination come miglior attrice. La biondissima artista mi ha fatto amare Barbie. Ebbene sì, lo dico senza vergogna, il film mi è piaciuto, ma più di tutto ho apprezzato lei: è riuscita, con naturalezza e classe, senza mancare di ironia, a umanizzare una cosa di plastica che un po’ di nervi li ha fatti venire a tutte quando eravamo alle elementari. Io le volevo decapitare le Barbie che continuavano a regalarmi. Sono sopravvissute grazie a mia madre. E non parliamo di Ken, non se lo comprava mai nessuna quell’attrezzo inutile.

Il Kevin di Ryan Gosling non vince l’Oscar, ma ha il suo degnissimo istante di gloria quando canta in giacca e pantaloni rosa shocking, accompagnato dal riff di chitarra di Slash. Sì, lui, il chitarrista dei Guns N’Roses. Ammetto che mi è andato il popcorn di traverso quando l’ho visto col suo riccio selvaggio intonso dal 1986, ma poi mi sono lasciata prendere dall’entusiasmo e ho cantato anch’io a squarciagola sulle note di I’m Just Ken, Where I see love, she sees a friend… il momento ha assunto un livello di epicità medio-alto.

Ma andiamo avanti e parliamo di argomenti dalle tinte decisamente più fosche del rosa. Nella fattispecie del film La zona di interesse, che si è portato a casa due statuette: miglior film internazionale e miglior sonoro. Il design acustico della pellicola è costruito per entrarti nelle orecchie e distruggerti l’anima. È un film che racconta il male ancestrale, che narra l’Olocausto rifiutandosi di mostrarlo. Non c’è violenza, non c’è sangue, c’è solo un giardino rigoglioso e ordinato, ci sono i bambini che giocano in cortile mentre qualcuno urla dall’altra parte del muro. Il regista britannico Jonathan Glazer ritira la statuetta e parla del pericolo, atrocemente presente in tutte le epoche della storia umana, di disumanizzare l’altro. Un pericolo a cui non ci piace fare molto caso, preferiamo nascondere l’ombra, darle un nome diverso o ridurla a banale routine. 

La protagonista è Sandra Hüller, virtuosa attrice tedesca candidata come miglior interprete per un altro film in concorso: Anatomia di una caduta, di Justine Triet, un legal drama anomalo ma scritto talmente bene da aggiudicarsi l’Oscar come miglior sceneggiatura originale. Anche questa pellicola vola alto e fa gongolare i cinefili e le cinofile del globo terraqueo.

Lo so, lo so: il nostro Io Capitano di Matteo Garrone non vince l’Oscar come miglior film internazionale. Delusione, tristezza, sconforto. Il mio orgoglio patriottico ne ha risentito parecchio. Ma bisogna ammettere che ha perso con onore: La zona di interesse era un osso molto duro da frantumare.

Ho lasciato il mio momento preferito all’ultimo, nonostante sia stato trasmesso nel mezzo della serata. Sento la necessità di finire in bellezza, e per me la bellezza agli Oscar 2024 l’ha portata Yorgos Lanthimos con il suo Poor Things, o Povere creature, se preferite. Più che un film, un’esperienza sensoriale. Bello tutto: la sceneggiatura, la scenografia, la colonna sonora, la fotografia. Tutto meravigliosamente bizzarro, sopra le righe, scorrettissimo!

Emma Stone è la più scorretta di tutte. Porta sullo schermo Bella Baxter, la protagonista del film affamata di mondo, e le regala l’eternità: è un personaggio che non morirà mai. E infatti è lei ad aggiudicarsi il premio come miglior attrice protagonista. Io piango. E anche lei piange. Non se l’aspetta, fa una faccia sgomenta, si alza dalla poltrona rossa in prima fila e si catapulta sul palco reggendosi il vestito verde acqua che le si è strappato durante la performance canora del collega Gosling: «Bella è il ruolo della vita!» dice. Poi dice altre cose che però mi sono sembrate un po’ sconclusionate, quindi non le riporto. 

Povere creature è un’ opera che ha scatenato polemiche, ha diviso, ha confuso, ha fatto urlare allo scandalo e insieme al capolavoro. Per me è puro cinema e, mentre noi ci azzanniamo, il regista se la ride perché credo che scatenare un putiferio e accendere gli animi fosse esattamente la sua intenzione. Meritava di più, ma ci accontentiamo delle quattro statuette d’oro. Buttale via!

Finito lo spettacolo, finiti i popcorn. Ho residui di mais scoppiato sul pigiama e mi sento ancora turbata emotivamente dal momento Emma Stone/Bella Baxter. Sono felice che la visione in differita non abbia affatto interferito con l’intensità e la qualità delle mie emozioni. Ho la faccia talmente di bronzo da dire a me stessa: io c’ero!

Grande cinema, insomma,  gran bei film. Meritano una visione anche altre pellicole meno (o per nulla) premiate come Killers of the Flower Moon, di Martin Scorsese, American Fiction di Cord Jefferson, Maestro di Bradley Cooper. Ne recupererò altri che ancora non ho visto: voglio approfittare di questa stagione feconda con la consapevolezza che potrebbero arrivare anni di vacche magre. Spero non accada, ma nel dubbio meglio fare scorta di «grazia di celluloide».

© Riproduzione riservata.

Anna Monosi

Nata nel 1981 nella penisola salentina, ha cambiato più volte case e regioni d’Italia. Attualmente vive a Catania, dove scrive, edita libri altrui, si occupa di pedagogia in natura e legge in maniera compulsiva e disordinata. 

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