18 Marzo 2023

Moby Dick, ovvero: “The Whale”, regia di Darren Aronofsky

di Antonio Messina

Brendan Fraser.

Basta questo nome per riportare alla mente di molti di coloro che sono cresciuti negli anni ’90 film come George re della Giungla (1997) e La Mummia (1999). Lo stesso Brendan Fraser che, in seguito a un incidente e al divorzio dalla moglie, è caduto in una spirale di depressione e obesità. Hollywood, per questo, lo taglia fuori, dopo decenni di carriera. Certo, se guardiamo alla filmografia dell’attore, non si può affermare abbia preso parte a film realmente degni di nota: Fraser è sempre stato per lo più protagonista di diversi blockbuster, o personaggio secondario di serie tv dal grande potenziale ma mal scritte e altrettanto mal dirette.

Il ritorno in scena di Fraser sul grande schermo è dovuto a una scelta meticolosa del regista Darren Aronofsky, direttore di pellicole spesso disturbanti (Il cigno nero, Requiem for a dream, Mother!) ma che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del cinema. Così, dopo una serata a teatro in cui assiste alla messa in scena di una pièce il cui protagonista è un obeso abbandonato a se stesso e alla propria condizione, Aronofsky cerca di trarne un film. Per anni ha tentato, senza successo, di trovare l’attore giusto. Infine, arriva Brendan Fraser.

The Whale è quello che potremmo definire, quindi, il primo film d’autore cui Fraser prende parte, ritagliandosi finalmente uno spazio importante tra gli attori diretti da Darren Aronofsky.

The Whale è la storia di Charlie, un professore patologicamente obeso che continua a insegnare da casa, senza mai mostrarsi ai propri alunni. 

Charlie pesa quasi 300 kg e la sua mole è talmente mastodontica che ogni movimento rischia di causargli costantemente un infarto. L’unico contatto con il mondo esterno è quello con Liz (Hong Chau), la cognata, che, ormai rassegnata a sua volta alla situazione di Charlie, non può far altro che aiutarlo nelle mansioni quotidiane e accertarsi che, per quanto la sua condizione lo permetta, egli stia bene. Il ritorno di Ellie (Sadie Sink) segna un cambiamento decisivo nell’atteggiamento del protagonista, che vede nella figlia un’occasione per concludere il suo percorso terreno con la consapevolezza di aver agito, almeno una volta, in maniera positiva e colmare tutto il vuoto che ha creato attorno a sé.

The Whale è, come molti film di Aronofsky, disturbante e assolutamente inadatto a tutti i palati. Quella che il regista mette in scena non è semplicemente la storia di un uomo obeso che mangia in maniera compulsiva. Considerandola come fosse una torta multistrato, il primo piano di lettura è quello che mostra la denuncia della società americana attuale e dello sfrenato capitalismo: il consumo compulsivo di tutte le risorse fino allo sfinimento, fino a non poterne più, fino ad ammalarsene e non riuscire a vedere la realtà in maniera razionale. 

Se vogliamo ampliare ancora di più il campo, invece, la pellicola può suscitare una riflessione sulla società del post-pandemia, che ha spinto molti a lavorare da casa: quante le persone che restano senza muoversi, sedute davanti a un computer, per la comodità e la schiavitù di non doversi recare fisicamente sul posto di lavoro? Quanti quelli che in questa condizione perdono la cognizione del tempo? Un tempo che si dilata, perché l’essere a casa dà l’impressione di non star lavorando davvero e che porta, quindi, l’orario di lavoro a prolungarsi. Cosa diventeremo nel giro di un ventennio continuando così, se non corpi inermi sui divani, settati esclusivamente per lavorare e con l’illusione di non starlo facendo realmente?

Il secondo livello di lettura è la condizione stessa di Charlie: la depressione lo ha portato a soffocarsi quasi letteralmente con il cibo, come un drogato che non può fare a meno della propria dose quotidiana pur sapendo che così continua a farsi del male. Liz, che si prende cura di lui, è colei che gli garantisce la dose di cui ha bisogno. 

Durante il film, Charlie rischia moltissime volte di morire anche solo per un piccolo boccone: diverse scene sono tremendamente forti, lo spettatore guarda inerme il protagonista soffrire senza poter fare nulla, se non sperare che ogni crisi sia seguita da un momento di calma e non dalla sua morte. Charlie sa che avrebbe bisogno di un intervento che possa salvargli la vita, così come il drogato avrebbe bisogno di andare in un centro di recupero. Ma non fa nulla. Dovrebbe, ne è consapevole, ma non reagisce perché – e questo ci porta al terzo livello di lettura – egli ha già fatto la sua scelta.

Il terzo livello è quello più evidente e, al contempo, quello in cui lo spettatore molto difficilmente riuscirà a immedesimarsi.

C’è un motivo se il titolo del film di Aronofsky è The Whale, ovvero “La balena”. Il protagonista ha sempre con sé una copia di un elaborato che parla di Moby Dick di Herman Melville. Un elaborato nel quale egli ripone la sua stessa vita nei momenti di crisi: le parole scritte su quei fogli, sono, infatti, la “medicina” che gli permette di attraversare indenne o quasi le fasi di crisi. Capaci di calmarlo nei momenti di panico e di paura o di tristezza. Moby Dick è l’alter ego di Charlie, e in questo romanzo lui “rivede se stesso”.

Su questo terzo aspetto potremmo stilare intere pagine per esaminare nel dettaglio le assonanze tra Charlie e il capodoglio della storia di Melville, ma rischieremmo di togliere allo spettatore e a chi legge questa recensione il bello della scoperta.

Possiamo però parlare, per concludere, dell’aspetto più tecnico della pellicola. 

La regia di Aronofsky è qui di stampo prettamente teatrale: la storia si svolge per il 95% all’interno dello stesso ambiente, dove il protagonista passa altrettanto tempo, circondato dai tre personaggi che a turno gli gravitano attorno, ognuno con le proprie intenzioni e i propri obiettivi. 

Girare un film all’interno di un unico ambiente comporta senza dubbio un costo inferiore rispetto a sfruttare più luoghi tra interni ed esterni, ma richiede il doppio delle energie, perché il regista e gli attori devono interagire con degli spazi ristretti e fare in modo che gli oggetti siano coerenti e ben contestualizzati, e non semplici suppellettili d’arredamento delle quali lo spettatore non sa cosa farsene.

Se l’interpretazione di Sadie Sink è potente tanto quanto è crudele il personaggio che interpreta, mostrandoci un’attrice dal grande talento che credevamo sarebbe rimasta relegata alla figura di Max di Stranger Things, quella di Brendan Fraser è senza dubbio la più riuscita.  

Fraser non è nuovo nell’interpretare personaggi con problemi di salute: ricordiamo che nella serie tv Scrubs lui era Ben, il fratello di Jordan (Christa Miller), la moglie del dottor Cox (John C. McGinley), affetto da una grave forma di leucemia. Come Charlie, anche Ben accetta il proprio destino, ma la differenza sta nel modo in cui lo fa. Se Ben mantiene l’atteggiamento giocoso che ha sempre avuto, affrontando con serenità la fine, Charlie scivola lentamente nell’oblio, ancorandosi finché può alla figlia.

La domanda che sorge spontanea, a questo punto, è: la scelta di Aronofsky è ricaduta su Fraser perché l’attore stesso ha attraversato una condizione simile a quella in cui si trova Charlie nel film? 

Per Fraser, che ha indossato un vero e proprio costume prostetico che, come ha dichiarato, lo ha limitato nei movimenti, facendogli provare quello che prova una persona di quasi 300 kg, senza dubbio è stato molto facile interpretare la parte in maniera naturale. Hollywood ha quindi messo in panchina l’attore solo per poi ripescarlo, annusando l’occasione di fare un film di successo?

Che il sistema hollywoodiano sia ambiguo lo si sa da sempre, ma non possiamo essere certi di queste supposizioni. L’unica cosa che importa, in questo momento, è che  Fraser ha finalmente trovato l’occasione di riprendersi e riscattare la sua carriera con un film che gli ha permesso di essere premiato durante la Notte degli Oscar come Miglior attore protagonista. Lo merita lui, che da questo momento in poi sicuramente tornerà a far parlare di sé sul grande schermo, tanto quanto questo film meriterebbe di essere visto da tutti, affinché si possa quanto meno cercare di comprendere come tutto quello che ha a che vedere con il body-positivity non va incoraggiato a tutti i costi e che si possa essere, quindi, in grado di capire quando il corpo assume determinate forme per costituzione e quando, invece, per una malattia, che sia fisica o che sia mentale.

Ma questo è tutto un altro paio di maniche.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Antonio Messina

È nato a Catania il 2 gennaio del 1993. Ha frequentato il Liceo Scientifico “Leonardo” di Giarre. Dopo il diploma segue due anni di Lingue e Culture Europee e Orientali a Catania, ma lascia per dedicarsi completamente alla stesura del suo primo romanzo, Le Ere dell’Eden – Genesi, una rilettura in chiave sci-fi delle origini di Dio, pubblicato, poi, nel 2015 per la casa editrice Carthago.

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