17 Agosto 2022

Giovanni Boine: il tormento, il peccato

di Patrizio Lo Votrico

Non parlo infine che di me. In confidenza anzi non so proprio di che altro si possa parlare che di se stessi.

Giovanni Boine, Plausi e botte

Così scriveva Giovanni Boine in Plausi e botte, esplicando anche quella che sarebbe stata la poetica e la direzione di tutta la sua produzione letteraria. 

Ecco che, ne Il Peccato, Boine impiega e dispiega al massimo delle potenzialità questa scrittura dell’io, la stessa che, senza distanziarsi troppo dal vero, potrebbe chiamarsi “sintassi dell’anima” che, in fin dei conti, non è altro se non, citando ancora Plausi e botte, “quel lirico intrecciarsi di molto pensiero sulla scarsezza di pochi fatti; quel continuo sconfinare della poca cronistoria esteriore nella contraddittoria, nella dolorosa, angosciata complessità del pensare”.

Ma entriamo nel merito del nostro romanzo breve, o racconto lungo; romanzo psicologico anomalo, orfano dei giudizi con cui il narratore accompagna con commenti i pensieri del personaggio, dove il lettore è introdotto direttamente nella vita interiore di quest’ultimo, senza nessun deus ex machina, potendo quasi partecipare ai suoi pensieri.

Il Peccato: perché questo titolo? E cosa è, nell’opera, il peccato?

In un romanzo dove narratore, personaggio principale, personaggi secondari e paesaggio non sono altro che rifrazioni dell’autore non si può non partire proprio dalla vita di quest’ultimo: nel 1914, anno della stesura del romanzo, Giovanni Boine si trova a Porto Maurizio, in Liguria, da circa quattro anni; lui, di anni, ne ha 24 e la sua vista offre a chi gli sta di fronte la pirandelliana dicotomia di un uomo alto un metro e novanta, specioso nella forma e periclitante nella sostanza, per via della tisi. Una mattina decide di entrare in una chiesa sull’odierna via Nizza, presso l’entrata del paese, in cui sente cantare una suora: è un soprano ed è famosa nel circondario proprio per le sue doti canore. Bene, su questo fatto di vita reale, Boine intesse la trama della sua opera, perché il protagonista, un certo signor B. (guarda caso), entra in chiesa e sente cantare un Armonium da cui resta estasiato, di cui si innamora. Ecco che a prima vista si potrebbe intravedere il germe del “peccato”: un ragazzo che entrando in chiesa si innamora di una novizia. Una chiave di lettura, ma non la principale – impossibile non riportare alla mente le storie di monacazione de la monaca di Monza manzoniana o di Storia di una capinera di Verga. Saremmo tentati di inserire l’opera nel filone del romanzo ottocentesco ma, in realtà, Boine, prende dalla tradizione solo spunti, per capovolgere la sostanza, inalveandola nel frammentismo sintattico e interiore, vessillo della letteratura espressionista del primo ‘900. Per capire realmente la prima natura del “peccato” dobbiamo tornare di nuovo alla vita dell’autore: in quegli anni, il giovane è militante tra i cattolici modernisti, che come obiettivo hanno quello di ripensare il messaggio cristiano alla luce delle istanze della società contemporanea, razionalizzando il contenuto, obiettivo che causerà la condanna della Chiesa. Quindi, un primo peccato sembra che derivi proprio dalla vita di Boine, che si innamora in chiesa pur non essendo, lui, un cattolico canonico.

Il signor B. però nella vita non è abituato a sostare sulle concezioni comuni di etica e morale. La sua vita è tutta un rovello di riflessioni e pensieri e, grazie o a causa di queste, intuisce che il peccato sta altrove, che ha una seconda natura, più profonda. Il ragazzo che “amava starsene in pace qui e chissà? anche lui distillare pian piano qualche discreta dissertazione, qualche commentario alla maniera dei mistici tutto polposo, tutto buono di vita modestamente profonda e disperderlo anche lui come il nonno, qui, fra i testamenti e gli atti a far meditare e sognare qualche lontano nipote.”, che “pareva dunque ch’egli dovesse lento (s’era dunque proposto di) placidamente invecchiare così, di cullarsi zitto e composto in questa specie (non nuova) di spiritual epicureismo”, capisce che l’unica vera salvezza umana e spirituale sta nel peccare, ovvero nel fare. Scrive Mara Boccaccio riguardo proprio il “peccato” per l’autore: «Boine è consapevole che arriva alla “purità sostanziosa” (P 8) soltanto chi ha molto peccato: fare, vivere, salire, provarsi e risolversi – “dobbiamo fare” (M 98) – rappresentano le tappe di un percorso evolutivo che è negato a chi non si concede di affondare le mani nel fango della vita e decide di permanere nel limbo della realtà, vergine e reso forte dalle illusorie sicurezze che consentono una severità giudicante». E ancora, è proprio Boine che, in una lettera del 1909 ad Alessandro Casati, confessa il “bisogno di un peccato enorme” che gli permetta “la ribellione improvvisa” e sia capace di dare, nell’azione tralignante, “la molla della salvezza”. Circa mezzo secolo dopo sarà Giorgio Manganelli a scrivere: “Bisognava colmare di peccato un luogo sacro per essere assolutamente certi che il luogo fosse irreparabilmente sacro”.

Il signor B. conoscerà e riconoscerà il peccato-salvezza e avrà “gli occhi nel viso ovale grandi, maravigliati neri, ridenti”, perché sarà la novizia, suor Maria, decidendo di non prendere i voti per vivere con lui, a introdurlo nella vita del peccato, ovvero alla vita che non è pura astrazione, ma vita del fare, del vivere: “Ecco, sì, sei un uomo, ecco che hai conosciuta la gioia e conosci ora il dolore, qui, carnale degli uomini. Ecco il peccato t’ha aperta la giovane gioia e condannato al lacerato dolore. Gioia e dolore a vicenda, carnale ed umano aggroviglio”.

L’innovazione primaria di Boine ne Il Peccato riguarda il sistema linguistico che utilizza nell’opera: un’architettura puntellata di accorgimenti narratologici (l’uso di deverbali e desostantivali, la fusione degli epiteti, l’inversione ritmica degli avverbi, gli aggettivi divaricati) e da un gesto stilistico che non spezza semplicemente il cosiddetto ordine, ma dà spazio a un ritmo interiore della scrittura, un tempo  che informa e investe di sé tutto il romanzo. Personaggi, oggetti, giudizi e paesaggi sottostanno ai movimenti ritmici della sintassi che, a sua volta, sottostà ai sommovimenti dell’animo del signor B./Giovanni Boine.

Il paesaggio ha un ruolo disforico, asseconda le riflessioni del personaggio. Se aumenta il dissidio che egli avverte tra sé e il mondo, il paesaggio si fa inquietante, deformato, come, ad esempio, il mare, che con l’andare delle pagine si increspa come si increspa l’animo del signor B.Insomma, ne Il Peccato tutto è Giovanni Boine, che scrivendo “non so proprio di che altro si possa parlare che di se stessi” ricorda una pagina de L’artefice di Borges: “Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Patrizio Lo Votrico

Nato a Nicosia il 24 Luglio del 1993, si è diplomato nel 2012 al Liceo Scientifico Ettore Maiorana di Nicosia. Si è poi laureato al corso di laurea triennale in Lettere Moderne all’Università di Catania, con una tesi sul mito di Orfeo e Euridice nella letteratura contemporanea.

Leggi di più


Potrebbe interessarti: