25 Luglio 2022

“Don Chisciotte, U.S.A.” di Richard Powell ovvero, riscoperta, satira e antimilitarismo

di Francesco Mola

Il termine CIA mi suonava vagamente familiare, ma non riuscivo a ricordare che cosa significasse esattamente. “Non conosco molto bene quella sigla” dissi. “Che voglia significare, forse, Comitato Internazionale dell’Amicizia, o qualcosa del genere?

Potrei risolvere la recensione di Don Chisciotte, U.S.A. di Richard Powell in tre semplici frasi. La prima: quest’opera è un piccolo gioiello perduto e ritrovato; non è un capolavoro e non è un classico indimenticabile, ma è uno di quei libri che quando incontra il lettore giusto, quando riesce a parlare al suo gusto e alla sua mente, trasmette un’esperienza davvero significativa. La seconda: questo libro ha più di cinquant’anni, ma riesce ancora a dire qualcosa alla nostra società, in particolar modo al tempo tumultuoso che stiamo vivendo. La terza: questo romanzo è puro piacere dal punto di vista narrativo, ovvero è una storia divertente con un intreccio che riesce a far ridere. Scorre con una leggerezza che è rara in letteratura, ma non si nega a un ragionamento intelligente e arguto.

Potrei, perciò, ringraziarvi per l’attenzione, raccomandarvi di andare in libreria (meglio se indipendente), invitarvi caldamente a cedere il vostro denaro – è poco, lo so – al libraio che vi porgerà una copia di Don Chisciotte, U.S.A. e augurarvi una buona lettura.

Vi immergerete così nelle atmosfere caraibiche anni Sessanta dell’isola di San Marco, in piena Guerra fredda, mentre arriverete a Puerto Grande al seguito di Arthur Peabody Goodpasture, giovane svampito neolaureato in scienze agrarie dell’upper class di Boston,  unitosi ai Peace Corps, l’organizzazione di volontariato internazionale voluta da J. F. Kennedy, perché convinto di poter realizzare un “programma di riforma agraria” che risolleverà le sorti di questa piccola repubblica, attraverso la coltivazione della Cavendish nana, una particolare qualità di banana. Beata ingenuità!

Non per niente, appena sbarcherete con lui dalla nave, lo vedrete chiedere a un ragazzino di strada – è Pepe, tenetelo a mente – di scattargli una foto ricordo con la propria macchina fotografica e assisterete alla conseguente rapina. Ma Arthur – per gli “amici” ispanici che, pagina dopo pagina, cercheranno di usarlo, raggirarlo, derubarlo, ucciderlo, ma anche sedurlo, Arturo (o El Estúpido, a seconda dei momenti) – non si farà mai abbattere: lui è fermamente convinto della bontà del genere umano.

Così convinto da voler trattare con El Toro, il dittatore dell’isola – ogni isola caraibica che si rispetti ha i suoi dittatori e le sue rivoluzioni da celebrare – e finirà con l’essere ucciso… più o meno. Si ritroverà poi tra i Descalzos di El Gavilàn, che organizza la prossima rivoluzione, e insegnerà loro… i segreti dello scoutismo. Oltre a come si conquista il potere. Ma a questo punto non dovrei più anticiparvi altro e dovrei rimandarvi alla lettura.

Tuttavia, se chiudessi qui il discorso, pur con le migliori intenzioni, sarei un pessimo recensore, perché questo libro, proprio in virtù delle sue semplici qualità, merita un maggiore approfondimento. Il primo punto in questione, come anticipato, è l’importanza della sua riscoperta. Richard Powell ha attraversato per intero il secolo Novecento: è nato nel 1908 ed è morto nel 1999. È stato uno scrittore e giornalista americano, autore di alcuni bestsellers popolarissimi, ma ormai quasi dimenticati. Non è ricordato come un particolare innovatore dei generi o dello stile, ma viene annoverato tra i cultori della buona narrazione. 

A partire dagli anni Quaranta, Powell cominciò a interessarsi di narrativa, in particolare di gialli. Nel 1956, L’uomo di Filadelfia, il romanzo a cui aveva lavorato per anni, lo consacrò al grande pubblico. Il libro venne trasposto al cinema da Vincent Sherman con il titolo I segreti di Filadelfia e ottenne tre candidature agli Oscar. Anche dal libro successivo, Vacanze matte, del 1962 (riproposto in Italia da Einaudi nel 2011), venne tratto un film, Lo sceriffo scalzo, diretto da Gordon Douglas e con la partecipazione di Elvis Presley. Con il successo, Powell poté ritirarsi in Florida e dedicare il resto della sua vita a fare ciò che amava: scrivere e pescare.

In Italia, Powell arriva con il successo di L’uomo di Filadelfia. Se ne interessa, nel 1958, Garzanti, da sempre attenta alle novità di successo, tanto che negli anni successivi tradurrà e pubblicherà tutti i suoi libri più celebri. Nel 1966, negli States esce il nostro Don Quixote, U.S.A. e di questo libro si innamora Woody Allen, il quale vorrebbe acquisirne i diritti per realizzare uno dei tre film per i quali ha ottenuto il via libera dai produttori a seguito del successo di Prendi i soldi e scappa (1970). Non riuscirà ad averli, ma non abbandonerà l’idea e, partendo da un proprio racconto, mescolandolo con elementi tratti dal libro di Powell, realizzerà il capolavoro: Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971). Sull’onda del culto per il film e per i suoi riferimenti, Don Chisciotte made in U.S.A. arriverà nelle librerie italiane nel 1979 edito da Garzanti, per poi scomparire dal mercato: un destino comune a molti (bei) libri.

Finché, a partire dal 2021, Marcos y Marcos, storica casa editrice indipendente milanese, tra le più attive e importanti del panorama italiano, decide che è giunto il momento di riproporre questi testi. Prima esce L’uomo di Filadelfia, poi, nell’aprile 2022, Don Chisciotte U.S.A. raggiunge nuovamente uno scaffale in libreria, ancora nella storica traduzione di Hilia Brinis. L’editore promette inoltre, sul proprio sito internet, la pubblicazione di un inedito (in Italia) per il prossimo anno. Aspettiamo al varco.

Per fortuna, il rapporto di Marcos y Marcos con il proprio catalogo è fatto anche di queste operazioni straordinarie. Accanto a novità audaci, la casa editrice va sempre a caccia di quelle piccole pepite, certe pagliuzze luccicanti, che restano sul fondo del fiume librario, il quale viene sempre alimentato da nuova acqua, a volte troppa. E per questa cura, i lettori come me ringraziano.

E questo ringraziamento è doveroso perché – ed è il nostro secondo punto – questo libro parla ancora al nostro presente. Dovendo definirlo, il concetto di “romanzo comico” risulta veramente angusto. In questo libro si ride, lo abbiamo detto, ma non è il riso sguaiato che nasce dalla percezione di un ostacolo comico da superare o su cui inciampare, non è il classico uomo che scivola su una buccia di banana – e di banane, in questo libro, si sente parlare molto, ma se ne vedono poche. Don Chisciotte, U.S.A., col suo riferimento alto al cavaliere della Mancia, è piuttosto un romanzo “umoristico”, guidato da quell’atteggiamento di chi coglie le incongruenze della vita. Sicché l’ironia e il filtro dell’ingenuità divengono gli strumenti per scardinare ogni discorso sul potere, sulla necessità di mantenere lo status quo a ogni costo o sull’opportunità di una rivoluzione, su cosa significhi il progresso. Arturo, novello Don Chisciotte, ingenuo e illuso, affiancato da Pepe, il ragazzino di strada che diventa suo malgrado Sancho Panza, e da Conchita, concreta, ruvida e sensuale, l’esatto opposto della Dulcinea inesistente ed eterea, attraversa le storture di un mondo diviso e in guerra (fredda), armato solo del proprio buon cuore. E possiamo dire che lo stesso buon cuore guida la penna di Powell, che, rispetto a Cervantes, risparmia al suo eroe un sacco di botte e decide di elevarlo ai più alti gradi, vincitore suo malgrado.

Ciò che ne risulta, quindi, è a tutti gli effetti un romanzo satirico e antimilitarista, guidato da una leggerezza straordinaria – e tocchiamo così il nostro terzo, e ultimo, punto – che gli permette di non prendersi mai sul serio. La penna lieve e scanzonata di Powell tratteggia, attraverso l’ingenuità di Arturo, la pochezza degli altri personaggi, i potenti, quelli che contano: il dittatore tronfio e impaurito da una banda di ribelli poveracci, mentre la minaccia, come nella migliore tradizione del potere, gli cova in seno nella figura del suo vice; il rivoluzionario, che nasce idealista, per poi scoprirsi amante del ruolo di comando, manifestando i tratti del futuro dittatore; la retorica progressista americana dei Peace Corps, la volontà di esportare un progresso che le popolazioni destinatarie non vogliono, o per lo meno non nell’ottica di sudditanza culturale (e imperialista) nei confronti della grande superpotenza; e al tempo stesso, l’ipocrisia di chi rifiuta il modello americano e poi compra gli abiti firmati al grande magazzino, sostenendo così una forma d’imperialismo più subdola, quella commerciale.

Insomma, con un tono che non è mai moralista, ma sempre narrativo, piacevole e leggero, di grande gusto e mai volgare, Powell scardina ogni certezza, corrode ogni concetto, spezza ogni illusione. Alla fine, anche il suo eroe, il Don Chisciotte d’America, l’ingenuo Arthur, scampato anche all’ultimo attentato e diventato, proprio per la sua ingenuità, unico modello positivo e moralmente accettabile – ma diciamolo, fondamentalmente è davvero un idiota – si ritrova cambiato dall’esperienza tra i rivoluzionari di San Marco. 

Ma cosa ne sarà di lui? 

Finita la rivoluzione, si ritorna all’ordine, perché ogni ribellione nutre sempre in seno la propria controrivoluzione. Forse non la rivoluzione di Arthur Peabody Goodpasture?

 

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Francesco Mola

Da nativo della Franciacorta, classe 1991, poco attratto dall’industria vinicola e dall’industria in generale, appassionato di storie e di storia, si diploma presso il Liceo Classico Arnaldo di Brescia nel 2010. Si iscrive poi al corso di Storia dell’Università degli Studi di Milano e si laurea con una tesi in Storia Greca dal titolo Dionisio I e l’assedio di Mozia del 397 a.C.: uno scontro tra civiltà.

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