1 Settembre 2021

Alice, ovvero dell’infanzia. “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll

di Giada Di Pino

Tutti noi conosciamo la storia di Alice, la dolcissima e curiosa bambina bionda, un po’ petulante e terribilmente curiosa, che, spinta dalla noia, un pomeriggio di primavera si infila nella tana del Bianconiglio e precipita nel Paese delle Meraviglie, il paese dei sogni, dell’assurdo, il paese del subconscio e degli spazi più reconditi della mente, il Nessundove che sta dentro ognuno di noi e attraversando il quale, inevitabilmente, cresciamo

Dal famosissimo romanzo di Carroll sono state tratte pellicole cinematografiche a non finire, da quella storica animata della Disney del 1951, a quella più recente diretta da Tim Burton (2010), per non parlare di riduzioni teatrali, storie animate, fiabe e molto altro ancora. Il Brucaliffo, il Bianconiglio, la Regina di Cuori, il Cappellaio matto, lo Stregatto, la Lepre bisestile e l’intero meraviglioso universo esploso dalla penna di quell’uomo geniale e fuori dagli schemi che fu Carroll in quel lontano 1865 popola, nostro malgrado, la nostra immaginazione, i nostri ricordi di bambini. E ci auguriamo che sia così anche per tutte le generazioni future.

Ma cos’è Alice nel Paese delle Meraviglie? A suo modo è, forse, un romanzo di formazione. Una formazione non voluta, non cercata, non desiderata. Una formazione avvenuta tramite la fuga da essa, un po’ come fu per Peter Pan d’altra parte. Alice non vuole crescere, non vuole diventare grande, stare con la sorella in riva al fiume a leggere un libro senza immagini. E quindi fugge.

Fugge nella tana del Bianconiglio, fugge nel mondo dei sogni. Un mondo bellissimo e colorato, ma terribilmente affine al mondo reale, di cui è lo specchio distorto: le Regine sono cattive e tiranniche, i Re senza carattere, i saggi Bruchi sono incomprensibili, le madri Duchesse sono snaturate e i loro bambini sono dei porcelli, i Gatti sono beffardi e i Cappellai sono matti, i Grifoni sono tristi e i processi sono inutili e ingiusti… E in questo mondo al contrario, in questo “specchio” deformante, Alice, suo malgrado, cresce

Nella storia, cresce e si rimpicciolisce, si mette nei guai per il suo essere “fuori misura” finché non impara ad adattarsi; capisce il peso delle parole, il gioco prediletto di Carroll, con cui sorprende continuamente i suoi lettori, e impara quanto possano essere importanti e pericolose. Alice, cioè, attraverso la sua infanzia, cresce, diventa suo malgrado adulta

E ciò che spinge la bambina è ciò che spinge ogni essere umano alla maturazione: come Arturo della Morante, come David Copperfield di Dickens, come Wilhelm Meister di Goethe, Alice è alla ricerca dell’io, alla ricerca di sé stessa, della sua personalità e della sua storia

Per tale motivo, Alice nel Paese delle Meraviglie, sebbene sia un meraviglioso viaggio nel mondo delle fantasie dell’infanzia e sebbene sia l’universo immaginario che tutti i bambini di ogni tempo dovrebbe vivere almeno una volta nella vita, come ogni romanzo di formazione che si rispetti, non è un libro per bambini, non solo per bambini: con gli occhi dell’adulto, con gli occhi di chi ha perduto la meraviglia dell’infanzia e la guarda ora con distacco e da lontano, ogni passo compiuto da Alice assume nuovi significati, è emblema di nuove metafore, nuove metamorfosi, nuove conoscenze del mondo. 
E a quel punto, leggendo questo romanzo, ciascuno di noi sarà Alice, quell’Alice che «si sarebbe ricordata di Alice bambina e dei bei giorni d’estate»

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Giada Di Pino

Ha lavorato presso la Leonida Edizioni, ha frequentato il Master in Editoria della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e ha svolto uno stage presso Il Saggiatore. Oggi lavora come editor freelance e come insegnante. 

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