23 Maggio 2021

La luce verde che pervade ogni cosa. “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald

di Giada Di Pino

Nick Carraway, un giovane uomo che vive a Long Island, è incredibilmente attratto e affascinato dalla grande e sfarzosa villa non lontano da casa sua, dove si svolgono continuamente le lussureggianti feste a cui partecipa la creme de la creme di New York, nonché dal suo misterioso quanto affascinante proprietario, Jay Gatsby. Tutti parlano di lui, tutti desiderano incontrare questo ricchissimo e potentissimo uomo che ama sfoggiare lusso e buon gusto e circondarsi del meglio dell’élite newyorkese. 

Ciò che nessuno però sa, nè sospetta, sono le sue vere intenzioni, che Nick scopre senza difficoltà nel momento in cui è proprio Gatsby ad andare da lui, a cercare la sua amicizia e a metterlo a conoscenza del suo segreto: ciò che Jay Gatsby disperatamente cerca è un amore perduto tanti anni prima, un amore che lo ossessiona e che gli toglie il sonno, un amore che è divenuto nel tempo la sua ragione di vita e che vuole assolutamente riconquistare, ma solo con l’aiuto di Nick può riuscirci. Lo stesso amore che lo condurrà al suo tragico destino, a divenire da predatore, da uomo potente e tenace, a vittima, prima di tutto di sé stesso.

Tuttavia, se questo romanzo, ritenuto il più riuscito dell’autore, si fermasse alla semplice storia d’amore, non staremmo parlando di Fitzgerald. A creare lo spaesamento nel lettore è innanzitutto l’aderenza tangibile tra l’ambientazione del romanzo, quei “ruggenti anni venti” in cui tutto era all’insegna della bellezza, della frivolezza, del lusso sfrenato, e la narrazione, che procede per frammenti, per illuminazioni momentanee, con un tono a volte quasi annoiato e distaccato, nonostante il racconto in prima persona mostri la scena dal punto di vista di Nick. In quel mondo troppo bello, non c’è spazio per le brutture, per lo squallore, per la turpitudine; e Fitzgerald non ci descrive nulla di ciò per cui non c’è posto, neanche le nefandezze, neanche i sentimenti più oscuri, neanche la morte. 

Tutta la narrazione è pervasa da una luce soffusa e leggiadra che lascia in ombra ciò che non si deve vedere e dipinge paesaggi, scene e personaggi con tenui colori pastello. Eppure giochiamo con carte di valore, con tematiche profonde e che toccano nel cuore l’animo umano e la società. Il fulcro dell’intera vicenda è racchiuso in un’immagine, in un simbolo che è il vero portatore di senso del romanzo: la luce verde che Gatsby vede in fondo alla baia, che brilla sul pontile della casa della sua amata Daisy. Quella luce che brilla e verso cui Gatsby tende la mano senza riuscire ad afferrare, è l’illusione più grande della società del Novecento: è il sogno americano

Gatsby non proviene da una famiglia benestante; si è costruito la sua ricchezza e la sua posizione con il duro lavoro e con un pizzico di fortuna, agevolato dal suo buon carattere e dall’effetto di attrazione che magicamente esercita su chi gli sta intorno. Ma di quella società a cui tanto anela, quel mondo fondamentalmente classista, borghese nel peggior senso del termine, elitario e opportunista, di quel mondo lì, Gatsby non ne farà mai parte. La luce verde sarà sempre davanti a lui, senza che riesca mai ad afferrarla. Daisy non è altro che lo specchio di quella luce, effimera e volatile. 

Il lettore troverà probabilmente che Daisy è uno dei personaggi femminili più odiosi dell’intera letteratura, e non a torto. Ma soffermandosi a riflettere, magari dopo che avrà superato la fase del trasporto emotivo suscitato dalla lettura, si accorgerà della tragicità di questo personaggio: anche Daisy è, come Gatsby, una vittima, pur essendo nello stesso tempo carnefice. Daisy è fondamentalmente una schiava del suo mondo, incatenata ad esso fino al punto che persino i suoi sentimenti e la sua emozionalità si piegano, si modellano su ciò che la società le ha chiesto di essere. È una donna ed è terribilmente debole, nell’indole come nella sua interiorità, e quell’unico anelito, quel moto di incompiuta libertà, effimera e baluginante anch’essa, ha avuto effetti devastanti.

A una prima lettura potrebbe sembrare che gli uomini e le donne che si muovono in questo romanzo siano superficiali, intangibili, impenetrabili, e che l’unico che sembra godere di una partecipazione emotiva a ciò che gli sta intorno sia Nick, il narratore testimone degli eventi. Tuttavia ciò che affligge i personaggi di Fitzgerald non è il distacco emotivo, non è la scarsa intensità dei sentimenti, che appaiono al lettore esattamente come al protagonista, cioè per mezzo delle sole loro azioni, ma l’assoluta inconsistenza che i sentimenti e le emozioni hanno nel contesto sociale in cui ci troviamo: sono cose per cui non c’è spazio nella “New York bene” degli anni venti, dove vige l’unica regola della convenienza, economica e sociale. 

I sentimenti che non hanno valore, di conseguenza, sono sentimenti che non si possono comunicare; questo porta i personaggi a cozzare tra loro come trottole impazzite, senza riuscire a intrecciare vere relazioni, veri contatti, veri scambi, incontri: “Il grande Gatsby” è un romanzo fatto di soli scontri, e perfino Nick sarà infine sorprendentemente vittima di questo meccanismo. È la luce verde che amplia il suo significato, diventa simbolo di un intero modo di essere di una società e la pervade in ogni suo aspetto.

In questo romanzo, in parte anche autobiografico, Fitzgerald ritrae con pennellate leggere ma incredibilmente precise l’umanità vittima del benessere lussuoso di quegli anni, ma, come tutta la grande letteratura, ci parla anche un po’ di noi uomini del XXI secolo, che di quel mondo siamo in parte figli. 

E chi ha orecchie per intendere, intenda.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Giada Di Pino

Ha lavorato presso la Leonida Edizioni, ha frequentato il Master in Editoria della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e ha svolto uno stage presso Il Saggiatore. Oggi lavora come editor freelance e come insegnante. 

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