20 Novembre 2021

Giocare con la morte, ovvero scegliere il proprio Dio. “Squid Game”, regia di Hwang Dong-hyuk

di Giada Di Pino
The Squid Game, scritto e diretto da Hwang Dong-hyuk (2021).

La serie che ha spopolato su Netflix e che ha intasato i social con commenti, riflessioni, considerazioni, gridi allo scandalo, richieste di censura e quant’altro giunge, infine, anche qui su Equilibri Precari.

La storia sembra inizialmente quella della classica distopia in stile Hunger Games o Divergent, solo molto molto più realistica. Siamo in Corea ai giorni nostri, nel nostro presente. Seong Gi-hun, il protagonista che domina la scena, è un uomo sommerso di debiti, col vizio delle scommesse sulle corse dei cavalli, divorziato e dilaniato dal dolore di non poter vedere la propria figlia e che vive sulle spalle della povera e anziana madre.

La sua esistenza sembra dover giungere presto al termine quando non solo viene raggiunto e malmenato dai debitori, ma si accorge di aver anche perduto la vincita che aveva appena intascato grazie alle scommesse e con cui avrebbe dovuto comprare un regalo di compleanno per la figlia.

Proprio sulla soglia della disperazione, viene raggiunto da un giovane uomo in giacca e cravatta che gli propone di giocare con lui: ogni volta che Seong Gi-hun vince, riuscendo a capovolgere il dischetto avversario colpendolo con il proprio (ciascuno di loro gioca con un dischetto di diverso colore, rosso o blu: pillola rossa o pillola blu? Vuoi restare in Matrix o vuoi vedere la realtà? Curiosa casualità o citazione voluta?), ottiene una grossa somma di denaro, se invece perde riceve uno schiaffo dall’avversario.

Alla fine della partita, quando Seong può tornare a casa dolorante ma pieno di soldi, il giovane uomo gli consegna un biglietto con un numero di telefono: può giocare ancora per ottenere altri soldi.

Ed è così che tutto ha inizio. Seong si ritrova catapultato in un reality game insieme ad altri 356 uomini e donne indebitati e disperati come lui, che sono disposti a tutto pur di avere del denaro, anche a cimentarsi nei tipici giochi d’infanzia. Solo che in questi giochi per chi perde è prevista l’eliminazione fisica.

E il gioco si trasforma in una terribile lotta per la sopravvivenza.

Si è molto discusso sull’impatto emotivo che questa serie ha provocato soprattutto sui più giovani, a causa della forte carica di violenza e crudeltà che essa trasmette, una crudeltà fine a sé stessa e che non lascia spazio all’immaginazione, uno splatter dove il sangue e i cadaveri invadono la scena nei modi più atroci.

Non si può negare che siano immagini che lasciano il segno, che colpiscono, e la cui forza è dovuta soprattutto a ciò che sta avvenendo sulla scena: i giochi a cui partecipano i personaggi che pian piano emergono insieme a Seong Gi-hun e tutti gli altri disgraziati come loro sono gli stessi giochi a cui abbiamo giocato tutti noi da bambini.

Giochi, dunque, che sono impressi nella nostra memoria, che sono rievocati in noi come momenti di spensieratezza, di gioia, di divertimento e che adesso sono invece imbrattati per sempre dall’orrore, dalla costernazione, dalla paura.

Ma perché questa scelta? Cosa vuole dirci la regia? Le risposte potrebbero essere molteplici. Forse si tratta semplicemente della proiezione della psiche del protagonista, un uomo indebitato e disperato perché, difatti, se da un lato la sfortuna lo ha perseguitato, dall’altro egli rifiuta di crescere, di prendersi le sue responsabilità di adulto, bloccato in una sorta di sindrome di Peter Pan che lo tiene ancorato al suo mondo infantile.

Oppure, la spiegazione è di più ampio respiro. Costringere uomini e donne adulti e disperati a tornare bambini col ricatto della vita è un modo per umiliarli, per prostrarli psicologicamente, sottometterli e torturarli. È un’umiliazione, una ridicolizzazione della vita stessa.

Una vita che non ha valore. Perché nessuna vita ha valore nel mondo dell’era postcapitalista, nel nostro mondo in cui l’unico Dio che conta davvero è il dio denaro, che governa le nostre vite e che è l’unica meta a cui ciascuno di noi, poveri mortali del XXI secolo, tende e aspira.

Un dio denaro che è simbolicamente ed emblematicamente rappresentato dal salvadanaio gigante appeso al soffitto nello stanzone in cui i giocatori sono rinchiusi e che ammirano ogni notte prima di addormentarsi.

Un salvadanaio che si riempie ogni volta che qualcuno di loro muore. La morte, nel nostro mondo, è barattata col denaro. La vita di un uomo ha valore solo per il denaro che riesce a produrre. Questo è il messaggio di denuncia di questa serie che ha fatto tanto gridare allo scandalo.

Eppure, i personaggi che pian piano emergono dallo sfondo indistinto delle divise bianche e verdi, divise che, insieme allo stanzone con i letti a castello, troppo ricordano i campi di sterminio nazisti, appaiono allo spettatore come uomini e non come carne da macello.

E se inizialmente il piccolo mondo del terribile reality sembra diviso in uomini e bestie, la realtà che ci viene poi pian piano disvelata è che non si è mai solamente uomini o solamente bestie: è l’umanità in tutta la sua contraddittorietà, in tutto il suo contrasto, in tutta la sua complessità che questa serie mette in campo, svelandoci che nessun abbrutimento è definitivo, che ogni uomo è il risultato del suo dolore.

E che ognuno di noi deve sempre e solamente scegliere.

Scegliere se puntare lo sguardo su chi gli sta accanto, la persona, la creatura che soffre con lui, come lui e per lui, specchio del Dio della vita, oppure il salvadanaio che riluce e incombe sopra le nostre teste.

Si è gridato allo scandalo, dicevamo, a proposito di questa serie, ma forse non per la giusta motivazione. Si è parlato soprattutto degli episodi di violenza che ha scatenato nei minori.

Viene spontaneo chiedersi chi gli abbia dato il telecomando, visto che la serie è caldamente vietata ai minorenni. Invece di non dare ai bambini i coltelli, si tenta di abolirli se si tagliano. Si scambia la causa con l’effetto, e non si riflette, spesso, su ciò che sta dietro, sul messaggio che, forse, sia opportuno che passi.

Non è il caso di dilungarsi oltre sulle tante polemiche che ne sono scaturite, ma forse dovremmo imparare tutti ad andare oltre i significati apparenti e chiederci quale sia il significato profondo di ciò che ci sta dinnanzi.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Giada Di Pino

Ha lavorato presso la Leonida Edizioni, ha frequentato il Master in Editoria della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e ha svolto uno stage presso Il Saggiatore. Oggi lavora come editor freelance e come insegnante. 

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