9 Aprile 2022

Last night in Soho

di Antonio Messina

La giovane Ellie Turner (Thomasin McKenzie) vive in una piccola cittadina della Cornovaglia con la nonna; orfana di madre, continua a coltivare il sogno di diventare una stilista di grande successo, ispirandosi all’abbigliamento degli anni ’60. Arriva, quindi, anche per lei il momento di lasciare la casa in cui ha sempre vissuto per trasferirsi a Londra e studiare moda. Ma le cose non vanno come previsto: la sua compagna di stanza, Jocasta (Synnøve Karlsen), le da parecchio filo da torcere con il suo snobismo ed Ellie si ritrova a dover far fronte a un mondo spietato in cui la competizione è ai massimi livelli e sembra non esserci abbastanza spazio per la creatività più pura. La situazione peggiora quando decide di prendere un appartamento in cui stare da sola: dalla prima notte, infatti, Ellie comincia ad avere sogni in cui si ritrova a vivere le vicende di Sandie (Anya Taylor-Joy) che vorrebbe cantare in un night club molto famoso e importante, frequentato da gente altolocata. Ma più i sogni vanno avanti, più Ellie si ritrova all’interno di una spirale di violenza e soprusi.

Le vite delle due ragazze corrono in parallelo fino al momento in cui, è chiaro, sono destinate a scontrarsi nella rivelazione finale.  Le vicende di Sandie condizionano Ellie al punto tale da apportare di volta in volta dei cambiamenti sulla sua stessa persona: un giorno la protagonista ha i capelli come la ragazza che sogna, quello dopo i suoi vestiti si ispirano a quelli dell’altra ragazza che, per un fortuito caso, sono quelli tipici degli anni ’60. E mentre questo meccanismo, però, va avanti, Ellie diventa una vittima allo stesso modo in cui lo è il suo alter ego: a causa di un suo particolare dono, ecco che improvvisamente i sogni diventano vere e proprie visioni a occhi aperti, fino al momento in cui questi non cominciano a perseguitarla anche da sveglia, trasformando la pellicola in un thriller psicologico dalle tinte horror.

Di film sulla moda e sul mondo spietato dell’arte in generale, il cinema è pieno. I più moderni e che ricordiamo con più facilità, senza dubbio, sono “Il Cigno Nero”, “Il Diavolo Veste Prada” e “The Neon Demon”. Di quest’ultimo, sembra che Edgar Wright abbia preso in prestito qualcosa: non solo le fredde luci al neon che ricoprono il quartiere di Soho, in cui Ellie va a vivere, ma anche l’inquietudine e l’alone di mistero che traspare attraverso le visioni della ragazza e i sogni lucidi che ella fa durante la notte. Chiaramente, siamo ben lontani dalle atmosfere oscure e lente del film di Nicholas Winding Refn ed Edgar Wright non è quel tipo di regista, ma le due storie ci parlano di abusi sessuali, di violenza gratuita, di un maschilismo primordiale e puramente istintivo, di omicidi efferati, di indifferenza e di potere; tutti elementi che riescono a risvegliare la curiosità e l’interesse dello spettatore, spingendolo a chiedersi quale sia effettivamente la natura di tutto ciò: Ellie è pazza o ha davvero un dono sovrannaturale? 

L’ambientazione e i costumi del mondo di Sandie sono molto dettagliati: il night club in cui ella si esibisce, le sue acconciature, i balli, il modo di muoversi e gli atteggiamenti degli uomini e delle donne della Londra di quel periodo… I sogni di Ellie sono specchio di una passione ardente per gli anni ’60, come se fosse lei stessa a ricostruire quegli ambienti, dando loro forma sulla base del desiderio di essere nata e cresciuta in quel periodo. A rendere ancora più credibile il tutto, Edgar Wright inserisce nella pellicola canzoni famose del tempo e quanto mai calzanti alla situazione tutta. Il tema principale, riproposto in più occasioni durante il film, senza togliere spazio agli altri pezzi, è “You’re my world” di Cilla Black. Non è un caso, ovviamente, visto che Sandie aspira a diventare la nuova Cilla Black. La sua voce poco comune e dall’enorme potenziale, però, verrà messa man mano da parte in favore di altri servizi richiesti alla ragazza.

Quello che Edgar Wright mette in piedi è un film con un grosso potenziale, che riesce a farsi guardare fino alla fine, ma che verso il finale sembra sgonfiarsi pericolosamente in una delusione. Non stiamo dicendo che il film sia brutto e che non valga la pena di essere visto: la scena in cui Ellie scopre di non essere più sé stessa, durante il primo sogno, attraverso un gioco di specchi, vale la visione di tutta l’intera pellicola, e non solo quella. L’interpretazione delle due attrici è impeccabile, con una sempre più affascinante e talentuosa Anya Taylor-Joy che puntualmente ruba la scena a tutto il cast. Ma dobbiamo ammettere che, senza la componente sovrannaturale, esso avrebbe acquisito un punto in più: la condizione che vive Ellie ha tutte le caratteristiche di un disturbo dissociativo dell’identità e se questo aspetto fosse stato esplorato in maniera più ampia, portato avanti e fatto evolvere, il finale del film sarebbe stato decisamente differente e, forse, anche di più grande impatto. Migliore? Non possiamo dirlo.

C’è da considerare anche la possibilità che senza questo aspetto “Last Night in Soho” rischiava di rientrare in quella categoria di film sulla moda e sullo spettacolo in cui i protagonisti sono costretti a fare i conti con la propria sanità mentale per raggiungere i propri obiettivi, come se chiunque si affaccia a questo mondo debba per forza essere un soggetto psicologicamente instabile.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Antonio Messina

È nato a Catania il 2 gennaio del 1993. Ha frequentato il Liceo Scientifico “Leonardo” di Giarre. Dopo il diploma segue due anni di Lingue e Culture Europee e Orientali a Catania, ma lascia per dedicarsi completamente alla stesura del suo primo romanzo, Le Ere dell’Eden – Genesi, una rilettura in chiave sci-fi delle origini di Dio, pubblicato, poi, nel 2015 per la casa editrice Carthago.

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