8 Ottobre 2022

La critica sociale è una questione di sguardi. “Nope”, regia di Jordan Peele

di Antonio Messina
Nope, regia di Jordan Peele (2022).

Il cinema americano da diversi anni sta riuscendo finalmente a dare spazio a registi nuovi e dal talento unico, permettendo loro di dare una rinfrescata al genere horror. A campeggiare sullo sfondo, tra i vari film di esorcismi, maledizioni, pseudofantasmi che infestano case e cercano in tutti i modi di far saltare sulla sedia lo spettatore, annoiandolo fino allo sfinimento, troviamo Ari Aster, Robert Eggers e Jordan Peele. Cos’hanno in comune i tre registi? In primo luogo, nessuno dei tre si concentra solo sull’horror fine a sé stesso, ma tenta in tutti i modi di mostrare allo spettatore tratti distintivi e sempre differenti della realtà e della società. 

Nonostante il successo, i tre registi risultano spesso misconosciuti dalla critica per via della crudezza e della complessità delle loro pellicole. Dobbiamo dirlo, però: lo spettatore di oggi è abituato ad avere tutto servito su un piatto, assuefatto dalla rapidità e dalla spettacolarità di certi blockbuster, ed è forse sempre meno propenso a confrontarsi con pellicole più complesse e dal ritmo meno serrato. Non sempre si è disposti ad andare aldilà di ciò che il film mostra in superficie, a tentare di sviscerarlo per carpirne il significato profondo.

Questo è quanto accaduto, ad esempio, con Nope, la terza fatica del regista Jordan Peele. Quando il film fu annunciato, a un anno dalla sua uscita, venne mostrato un trailer che non suggeriva altro che la presenza di una minaccia invisibile. Un mistero che non veniva mostrato. Il titolo – una semplice negazione – non suggeriva nulla della trama.

Di cosa parla, dunque, Nope? Di molte cose. Soprattutto dei discendenti dell’uomo protagonista della prima pellicola proiettata nella storia del cinema: alcune foto che, in loop, ritraggono un uomo di colore su un cavallo al galoppo. Tutti ricordano quei due secondi di girato, ma nessuno conosce il nome dell’uomo che cavalca l’animale. Otis “OJ” Heywood Jr. (Daniel Kaluuya) ed Emerald “Em” Heywood (Keke Palmer) sono i pronipoti di quell’uomo e gestiscono un ranch con il padre, in cui allevano e addestrano cavalli da utilizzare nel cinema. Ma il film, fin dalle prime battute, si presenta come un mistero costante: dalla scena di apertura, in cui una scimmia girovaga confusa con le mani insanguinate all’interno di uno studio televisivo, fino alla misteriosa morte del padre dei due ragazzi.

Da qui in poi, la trama comincia a svelarsi lentamente, come il sipario di un grande teatro che si apre per lasciarci finalmente vedere cosa c’è dietro: il pericolo è reale e, da invisibile, in un momento del tutto inatteso, ecco mostrarsi in tutta la sua tangibilità. Lo spettatore si ritrova momentaneamente libero dal senso di ansia che Jordan Peele ha messo in atto con la bravura di chi non mostra subito la forma di ciò che sta creando tanto scompiglio.

Una volta svelata la minaccia, al regista non rimane che illustrarcene le potenzialità. E lo spettatore si ritrova gettato a capofitto in quella sensazione di ansia tipica del genere, non per ciò che non può vedere, ma per ciò che potrebbe succedere da un momento all’altro. Il film non suggerisce nemmeno per un attimo che qualcuno possa effettivamente salvarsi di fronte a un simile pericolo, e chi è avvezzo ai film di Peele sa benissimo che la salvezza è l’ultima delle soluzioni, anche laddove il finale sembra essere positivo.

Nope si muove su tre binari paralleli. Innanzitutto, tenta di puntare i riflettori sulla tipica dicotomia uomo bianco/uomo nero, che vede protagonista una famiglia afroamericana in una Hollywood messa in piedi e gestita da uomini bianchi che non ricordano o non sanno nemmeno chi fosse l’uomo che cavalcava quel cavallo. 

Ancora oggi, difficilmente gli afroamericani sono protagonisti indiscussi nel cinema. Il regista di questo film è proprio un afroamericano, che vuole non solo mettere in primo piano la minoranza a cui appartiene, ma anche dimostrare cosa può fare un nero dietro la macchina da presa.

Allo stesso modo, gli animali vengono messi in secondo piano non solo nel mondo del cinema, ma in generale, come spesso accade per la Natura tutta. I cavalli, qui elemento fondante e fondamentale del film, vengono trattati dagli uomini come esseri incapaci di comprendere, come semplici oggetti da utilizzare per le pellicole da girare. I cavalli, come i neri, contano pochissimo, sono sacrificabili, carne da macello, esseri viventi da immolare ad una sorta di divinità famelica. Il terzo elemento sul quale si muove il film è quello della necessità costante – e di fatto nuova per l’essere umano – di trovare un posto nell’odierna società tecnologica che tende a una costante spettacolarizzazione degli eventi. Quando parlavamo della capacità dell’essere umano di commettere anche l’azione più deprecabile per raggiungere il proprio obiettivo, ci riferiamo a una società che oggi sente la necessità di cercare “lo scatto perfetto” da mettere in mostra, che sia su Instagram o in diretta televisiva.

Dal punto di vista tecnico, Nope ci mostra una grande cura per i dettagli e i luoghi. Le zone desertiche attorno al ranch hanno permesso al regista di muoversi in questi spazi aperti con una libertà incredibile, rendendo lo spettatore parte integrante delle scene in cui i personaggi fuggono, si gettano in mezzo al pericolo o addirittura inseguono un cavallo in fuga. Si azzardano anche un paio di piani sequenza ed enfatiche riprese dal basso.

Ciò che però colpisce davvero lo spettatore in sala sono le scene in cui la minaccia si mostra in tutta la sua imponenza, svelando il suo vero aspetto, che sembra essere preso di peso dal Dune di Denis Villeneuve e riadattato per Nope. Talmente spettacolare e mastodontico che a Peele non bastano più i dettagli o le riprese in contro-plongée (dal basso verso l’alto): gli ultimi minuti sono una continua sequenza di campi lunghissimi che permettono di mostrare la minaccia in tutta la sua interezza.

Checché ne possa dire la critica, Nope meriterebbe di essere visto al cinema in formato IMAX. Possiamo affermare senza ombra di dubbio che, così come con i due precedenti film, Peele riesce ancora una volta a fare centro, regalandoci una pellicola horror in cui la critica sociale è una parte preponderante, difficile forse da interpretare alla prima visione. Una critica che il regista sta rivolgendo a tutti, anche a coloro i quali pensano di potersi dire fuori da certi meccanismi cui la società ci ha costretti.

Il titolo del film? Non possiamo dirvi perché Peele ha scelto proprio quella parola, rischieremmo di svelarvi una parte della soluzione finale. A voi scoprire di cosa si tratta davvero.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Antonio Messina

È nato a Catania il 2 gennaio del 1993. Ha frequentato il Liceo Scientifico “Leonardo” di Giarre. Dopo il diploma segue due anni di Lingue e Culture Europee e Orientali a Catania, ma lascia per dedicarsi completamente alla stesura del suo primo romanzo, Le Ere dell’Eden – Genesi, una rilettura in chiave sci-fi delle origini di Dio, pubblicato, poi, nel 2015 per la casa editrice Carthago.

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