3 Giugno 2022

Le donne inafferrabili di Michela Murgia

di Elisabetta Siotto

Michela Murgia, “una donna a caso”, spesso al centro del ciclone di moltissime polemiche, in prima fila per la lotta contro il Gender Gap, capace di minare, fin dalle fondamenta, la cultura intrinsecamente sessista del nostro paese, colei che condivide con Vera Gheno il peccato originale dell’inserimento dello Schwa nella lingua italiana, compie oggi gli anni.

Buon compleanno Morgana, buon compleanno a te e a tutte le tue meritevoli colpe.

© MP5

Le notizie sulla sua vita privata sono poche, riducibili a sordo chiacchiericcio e pettegolezzo, ma molto si può dire di lei, come essere umano e attrice sociale, osservando la sua scrittura giornalistica, i suoi interventi televisivi, il suo uso dei social e, soprattutto, il suo storytelling letterario. Il filtro con cui racconta il mondo, tramite romanzi dalla struttura essenziale, le personalità che adagia su sfondi nitidi, mai casuali, le ricerche sul campo della vita o sulle fonti bruciacchiate delle leggende, ci dicono  dell’autrice molto più che il venticello calunnioso di un’indignazione reazionaria.

La sua battaglia principale la conosciamo, ma esistono molti modi di lottare contro la disparità di genere in questo mondo, e noi oggi, in Equilibri Precari, abbiamo pensato di “morganare” Morgana, individuando le valenze che legano le donne inafferrabili di Michela Murgia.

Il primo dato è essenziale: nessuna di loro è straordinaria. Nemmeno le Morgane che prende a esempio nel Podcast con Chiara Tagliaferri. Si tratta di persone che hanno compiuto azioni incredibili, certo, ma vi è un rifiuto categorico nei confronti del concetto storico di straordinarietà, quello che il dominio maschile ha attribuito per secoli alle donne capaci di agire in maniera indipendente, etichettandole come esseri fuori dalla norma. La legge generale determinava per il sesso femminile le porte sbarrate di una casa in cui tenere acceso un focolare, tutto il resto era extra-ordinario, alieno, deviazione da tenere in conto, ma non da normalizzare, mai. Il rifiuto a questa esotizzazione di genere, in Michela Murgia è pura lotta. Così come lo è associare nello stesso spazio narrativo Moana Pozzi e Santa Caterina da Siena, una lavoratrice del sesso e una donna di Chiesa, intervallate nel Podcast da Vivienne Westwood, anarchica, vegetariana, stilista inventrice della moda Punk. 

Forza umana, forza di donne in grado di uscire dagli schemi, il potere preteso, strappato con le unghie da un sistema patriarcale granitico. Straordinarie in quanto esseri umani, genericamente, incarnazioni del mutamento necessario nel mondo, spiragli e realizzazioni di una nuova norma. 

Così, le attrici che abitano i romanzi di Michela Murgia non hanno alcunché di alieno o di extra-ordinario, se non nei meandri sottesi di un matriarcato oscuro e sottile, che appartiene essenzialmente alla sua e alla mia Sardegna; una radice culturale che associa all’essere donna una valenza magica, maghiaria, normale nella mente dei suoi abitanti. Sono dunque magiche le donne narrate da Murgia, ma questo non impedisce loro di portare un bagaglio di tratti caratteriali dal sapore antieroico, né di vivere sul filo spinato delle proprie contraddizioni. Hanno valenze appuntite, come la penna che le descrive, come le azioni che decidono di compiere. Sono scritte libere di essere prismatiche, capaci di riflettere, nelle loro storie fittizie, la moltitudine di aspetti che ogni essere umano concepito femmina ha necessità di incarnare. Contraddirsi per sopravvivere alla pressione sociale, sovvertire per emergere dal fango.

Maria Listru che ruba ciliegie è stata la prima, forse la più grande. 

Maria Listru che ruba ciliegie senza sentirsi in colpa è il motivo dei premi Mondello e Campiello del 2010.

Una ragazzina normale, quasi invisibile, ultima di quattro figli di una famiglia che la dà via, la fa adottare come filla de anima da una donna sterile vestita di nero. Questa è colei che, come racconta l’etimologia del nome, pone fine, Accabadora. L’odore che sembrano emanare le vesti di queste due donne complicate della sua terra è, nella mia mente, quello di timo e mirto. Sono odori forti, protagonisti di uno spazio-isola. E protagoniste, donne che agiscono e non sono agite, sono Maria e Tzia Bonaria.

Non dormono, le donne di Michela Murgia, non sognano il principe azzurro, non compaiono nei titoli come merletti che abbelliscono la storia di un eroe. Non arrivano nemmeno a concludere le loro vite per vie prestabilite, al limite sono conclusive. 

Deus ex machina, Accabadora, colei che pone fine.

Gli uomini di questo romanzo sono storpi e avvelenati, cercano fra le braccia avvolte da maniche arrotolate di Tzia Bonaria una pace che la natura non vuole dargli.

Leggendaria Accabadora, l’ultima madre vestita di nero, antitesi del ruolo primario attribuito alla donna: partorire nel mondo. In questo romanzo adotta e levando la vita la insegna, includendo tutte le sfumature di grigio che le sono proprie. Il finale aperto descrive, probabilmente, la concezione che Michela Murgia ha dell’esistenza e del destino di ogni essere umano. Nessunə di noi deve mai dire: “di quest’acqua non ne bevo”, perché la liberazione da un corpo terreno malato, che nel romanzo è gabbia, è metaforicamente liberazione da ogni legame obbligato, costrittivo, dettato da morale umana, pre-impostato da qualcuno che, ponendo la legge rigida del padre, invoca poi il fluido mondo anarchico della madre.

Il paradosso di Accabadora, di un romanzo che ha come titolo il concetto stesso di “porre fine”, è l’assenza di una conclusione deterministica. Un finale aspro e sospeso che apre all’orizzonte del lettore le infinite possibilità di un labirinto rizomatico.

Un ribaltamento esemplare e doppio. In orizzontale, nel testo stesso, risiede in questa contraddizione. In diacronia, invece, tende le mani verso le donne umanissime e sovversive di memoria deleddiana. Una madre che nell’utero è Cenere, spiriti che sono piegati in corpi fermi, ma non si spezzano, come Canne al Vento.

C’è poi Eleonora, in Chirù. Eleonora insegna, ribalta il dittico onnipresente e inciso sulla pietra della dialettica maestro-allieva, ne strappa i chiodi. Diventa la scia discutibile dietro alla quale un ragazzino impara a diventare adulto, partendo dal suono del maestrale sardo e viaggiando oltre, verso terre lontane, continentali. La forza motrice di questo romanzo mette Eleonora all’origine del movimento di Chirù. Lui, teoricamente protagonista, può affrontare il suo viaggio di formazione solo grazie al coraggio trasmesso da quella maestra interrotta, un po’ folle e contraddittoria nel suo rifiuto alla maternità. Eleonora infatti non è madre. Un desiderio soppresso, che si riversa su un ragazzino pronto a starle dietro in un amore amaro, altalenante e scontroso.

Niente di straordinario anche in Eleonora. Solo una persona intelligente, unica come tantə, frutto di un passato difficile, somma finale di una infelicità subita. La sua verità è imperfetta, come tutte le verità. E anche lei ha un suono deleddiano. Simile alle colombe complesse di quella stessa Grazia Deledda, Premio Nobel ’26, che ha costruito “il ponte” su cui la nostra Morgana dichiara di camminare dalla sua isola al continente. Non è difficile intuire il peso di questa letteratura in tutti gli umanissimi difetti riversati sulle donne inafferrabili di Michela Murgia.

Grazia Deledda, “la sovversiva”: un’attribuzione che possiamo rispecchiare da una Cosima all’altra, in un coraggio che da madre letteraria passa al nostro contemporaneo, in un’intertestualità che pone la donna al centro dell’agire e dell’essere pienamente, senza pretesa di definita completezza.  

Innamorarsi della scrittura di Michela Murgia è semplice in questi due romanzi fatti di fili spinati stilistici, disseminati da contrappunti lontanissimi dal muro di valenze stereotipiche che, solitamente, vengono adagiate sui corpi delle donne in letteratura. I binomi quadrati e inquadrati di Madre-Amore e Prostituta-Oggetto, tutte le valenze ossimoriche di Maria e Maddalena si sciolgono tra le pagine tracciate dall’inchiostro di questa Morgana. Diventano liquide davanti a un’assassina che porta pace, davanti a una donna che distrugge il suo ruolo passivo di carta bianca su cui scrivere e diviene penna. Scoppiano, come bolle di sapone, nell’assenza di sovradeterminazione.

Michela Murgia brilla per la sua capacità di desiderare una piena apertura. E forse, proprio questo desiderio, la rende capace di tracciare con tanta amara lucidità le realtà sbeccate del genere femminile, in una pluralità di forme umane contorte che sono fumo nel vento: pervasive e ugualmente inafferrabili, mai solo nomi, ma essenza di fuga dalle catene del possibile.

Anche questa è magia.

Tanti auguri Morgana.

© Riproduzione riservata.

Elisabetta Siotto

Nata il 25 dicembre 1995, è cresciuta a Nuoro, nel cuore della Barbagia. Dopo aver frequentato il liceo classico Giorgio Asproni e dopo aver maturato una piccola esperienza giornalistica con la testata online Globalist, è partita per il Sud alla scoperta della Sicilia.

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