1 Aprile 2023

Il lato oscuro dell’umanità. “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd (parte seconda)

di Giulia Chines

Il lato B di The Dark Side of the Moon tratta di quelle cose che occupano il nostro tempo e ci lasciano scivolare nella follia violenta: l’avidità, la guerra con la sua netta divisione fra un noi e un loro. Ma ci mostra anche un’altra follia, una sorta di follia liberatoria, emotiva e che rifiuta l’incasellamento nel sistema precostituito. Troviamo i lunatici a cui si riferiva il titolo originale: quelli a cui è dedicato il disco, quelli che vivono la bellezza delle piccole cose, nella consapevolezza che la nostra vita è l’insieme di tutti questi momenti.

LATO B

Money

Prima traccia di questa seconda parte, inizia con degli effetti sonori ripetuti in loop: rumore di monete, di banconote e di un registratore di cassa. Poi si aggiunge il riff di basso, un giro semplice che ci fa subito pensare a un casinò dove uomini ricchi sperperano il proprio denaro, fra donne e alcol. La chitarra si accosta al basso, mentre la voce inizia a parlarci del pericolo che i soldi rappresentano. Ci narra del lusso, del volere sempre di più. Ci racconta di come la morale crolli di fronte a questo potere scintillante e consumistico. Poi un sax, che ci fa entrare sempre più in questa atmosfera: immaginiamo jet privati, yatch, droghe, ogni piacere mondano. L’assolo di chitarra continua a portarci nel vortice di questo rito al dio denaro. Riusciamo quasi a percepire una conversazione, un ridere sguaiato di ubriachi. Ogni nota riesce a evocare il senso del più sfrenato abbandono alla materia. Poi ritorniamo al ritmo, come se si tornasse a lavorare per “fatturare”. L’avidità è sempre più forte. E non sorprende che i soldi rappresentino un potere che viene sempre più accentrato in poche mani. Alla fine, mentre continua la musica, sentiamo delle voci – tutte diverse – che parlano del loro avere ragione in una situazione in cui avevano usato violenza.

Us and Them

Un organo sale, mentre i volumi della canzone precedente scendono. Prende la scena catapultandoci in un’atmosfera come di chiesa. Poi parte la chitarra e ci rendiamo subito conto della tristezza della canzone. Si parlerà di noi contro altri in fondo e di come questo non abbia senso. Di nuovo incontriamo il sax, che ci fa sentire ancor più la malinconia di un tema così importante. Noi e loro, ma alla fine siamo tutti soltanto uomini ordinari. È una denuncia all’etnocentrismo che prosegue con un ritmo lento, quasi pensoso. Noi non vorremmo lottare, ma siamo quasi costretti. Poi la musica sale in un vortice disperato, mentre si parla di un generale che manda a morire le proprie truppe, segnando linee su una mappa. Alla fine si tratta di questo, scontri fra eserciti, la futilità della guerra, la presunta divisione in opposti. «Up and down and in the end it’s only round and round», perché siamo noi a creare un nord e un sud in una terra rotonda. E infatti è solo «una battaglia di parole», il dramma umano del dover de-finire, ovvero porre dei confini fra le cose per comprenderle. La musica ci trasmette il senso di questo uso dicotomico del linguaggio che il testo aveva esposto. Poi di nuovo delle voci, che parlano di episodi violenti che hanno vissuto, di come hanno fatto del male a qualcuno. Il sax esprime nuovamente tutta la nostra mestizia nel pensare che ci si possa comportare così fra esseri umani. La musica sale, il coro esprime il dolore delle masse che soffrono. Non c’è una giustificazione: c’è solo il tormento e il lamento del sax. Mentre sentiamo le lacrime agglomerarsi attorno agli occhi, il canto riprende, rassegnato. È e rimane ancora una questione di nomi e parole. E ancora una volta non pensiamo all’altro, perché le nostre giornate sono troppo impegnati. Questi argomenti ci hanno attraversato, ma sembrano quasi passare in secondo piano e, ancora una volta, le ultime parole del brano ci ricordano la morte imminente.

Any Colour You Like

Questo brano, totalmente strumentale, è difficile da interpretare. Il titolo sembra riferirsi a una delle domande che furono poste nella breve intervista al personale in studio, che servì a collezionare le parti parlate che costellano il disco. E infatti l’inizio ci ricorda un vortice di colori, una spirale emotiva che ci porta dentro noi stessi, ma come se tutto apparisse confuso, mescolato insieme, facendosi poi lentamente più chiaro. Il sintetizzatore sembra accompagnarci dentro questo viaggio interiore, fino a esplodere in quello che ci ricorda un pianto liberatorio, la chitarra che ci guida verso una risata piena di lacrime. È la discesa nella follia, ma non quella che abbiamo conosciuto sinora. È il lato oscuro della luna, forse, quello che il sole-ragione non illumina. La musica ci dà un senso di nostalgia e libertà al tempo stesso, come qualcosa che avevamo perduto e dimenticato. Continuiamo a percepire la musica come una sorta di danza dentro noi stessi, una danza che raccoglie l’intero spettro delle nostre emozioni e le porta in superficie. Il sintetizzatore ci dà ancora quella sensazione di piacevole trance. Sembra che ci porti alla quiete di quella vera libertà, fino a sfumare nella canzone successiva.

Brain Damage

È con una calma surreale che la chitarra ci conduce in questa immagine sospesa di prati verdi dove ognuno è libero di correre. Immersi in ricordi d’infanzia, sentiamo la follia arrivare, lenta. La musica esplode e ci ricorda tutto il viaggio percorso nel disco, per ritrovarci tutti insieme nel lato oscuro della luna. Sentiamo finalmente la risata della prima traccia. «The lunatic is in my head» e la società subito ti rinchiude, cerca di curarti. La canzone è il rifiuto della cura, in un canto di unione ci ricorda che siamo tutti un po’ matti, di quella follia bella, di quella che ci ricorda che ci vedremo lassù sulla luna, noi lunatici, a vivere le cose della vita ormai dimenticate, fuori dai limiti della società. Ma la canzone è anche un omaggio a Syd Barrett, ed è chiaro nella frase «And if the band you’re in starts playing different tunes». Mentre il sintetizzatore ci fa sentire in un film sci-fi, sentiamo una voce che ci dice che non trova le parole, che pensa sia solo meraviglioso e ride.

Eclipse

Una tastiera ci trascina in questo stato di eclissi, psichedelico e tenero al tempo stesso. La nostra vita è tutto ciò che incontriamo nella nostra esistenza, ora lo abbiamo ritrovato. Le cose importanti, al di là di ciò che ci distoglie dal poco tempo che abbiamo. Le persone, le sensazioni, le emozioni. L’unirsi di passato, presente e futuro. Tutto ciò che sta sotto quel sole eppure è ormai coperto dalla luna, come se il potere del nostro inconscio superasse quello della ragione. Tutte le voci si uniscono come in un coro gospel, in questo canto alla vita. Infine, solo il battito che abbiamo sentito nell’introduzione del disco, Speak To Me, e un’ultima frase: «There is no dark side of the moon, really. Matter of fact it’s all dark».

Questo disco è eterno perché ci emoziona, ci parla in un modo diretto, con un taglio che solo i Pink Floyd sapevano dare. Schietto eppure delicato, prorompente eppure che ti trasporta. La nostra recensione è un piccolo contributo, un omaggio a una pietra miliare della musica. Un album che ancora riesce a parlare dell’umano, di ciò che siamo e di ciò che dovremmo ricordarci di essere. Ci tocca nel profondo, ci fa divertire e pensare con tracce come Money e ci trascina in un vortice quasi depressivo con The Great Gig In The Sky. Ci fa piangere e soprattutto, come ogni vera musica, ci fa vivere.

© Riproduzione riservata.

Il nostro giudizio

Giulia Chines

Nata a Palermo nel 1994, si diploma al Liceo scientifico Galileo Galilei della propria città. Prende una laurea triennale in Studi filosofici e storici e una magistrale in Scienze filosofiche e storiche all’Università degli Studi di Palermo, approfondendo in particolar modo gli studi antropologici di René Girard rispetto al capro espiatorio e agli stereotipi di persecuzione, oltre che al rapporto violenza-religione.


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